venerdì 27 febbraio 2015

Jengaaaaa




Ora, io sarò anche obsoleta, ma di questo Jenga non avevo mai sentito parlare finché non l'ho incontrato in un fumosissimo bar di Pechino. Già, perché a Pechino nei locali si può fumare, anche se non lo fa quasi nessuno. Il fumo non fa parte dei vizi cinesi popolari. Ma è contemplato.
Comunque, Jenga è un gioco 'di società', categoria generalmente assai estranea alla mia natura di lupo solitario (talvolta anche mollusco solitario, ma questa è un'altra storia). 
Flaminia ha sbeffeggiato la mia ignoranza, ma io l'ho trovato un passatempo divertente e senza impegno. Forse complice un numero X di birre... È una versione massiccia del vecchio Shanghai. 


Intanto, prima informazione dal web, Jenga non è per niente cinese ma swahili. In quella lingua fa voce del verbo costruire. Come sia, Jenga ha fatto parecchia strada, pure se in molto tempo. 
Si compone di 54 blocchi di legno, come mattoncini si impilano in fila per tre, dritti e rovesci. Poi a turno i giocatori,  con una sola mano, altrimenti guai,  devono togliere un pezzo senza far cadere la torre. Inevitabilmente si creano equilibri destinati a sempre maggiore imperfezione. E al crollo alla mossa maldestra o prona alla legge di gravità. 
Insomma, non proprio un rompicapo da intellettuali, ma sempre meglio, per me, di burraco e compagnia bella. Forse perché non sono intellettuale. 


sabato 21 febbraio 2015

Street food, buono anche per la mente



Street food, mangiare alternativo, non (solo) per meno abbienti, ma in gran parte modo di vivere e cercare contatto con culture diverse. Sia come sia, senza troppi ghirigori,a me piace provare il cibo da strada ovunque. Anche perché, almeno negli ultimi 30 anni, un avvelenamento nemmeno piccolo piccolo piccolo mi è mai capitato. Quindi, largo agli esperimenti. 
Più che descrivere a parole, ecco qualche foto. A cominciare dai baozi, i miei preferiti, panini cinesi al vapore ripieni di maiale e verza. Commoventi. 



E poi anatra alla pechinese, calamaroni fritti lì per lì, strane verdure da cuocere a casa chissà come e così via andando per ogni vicolo. Le facce sorridenti alla nostra curiosità, l'entusiasmo nel proporci ogni novità, aprire il gusto per allargare la mente. 

  

  


giovedì 19 febbraio 2015

Le due torri





La prima visita, intesa come sighseeing, a Pechino è stata alle torri. La Torre del Tamburo e la Torre della Campana si fronteggiano sulle curve di una piazza ovale nella Pechino vecchia. Sono quadrate e hanno tetti elaborati a pagoda. Come tutti i luoghi di valore ( ma anche parecchi apparentemente scialbi alla cronaca e alla storia) sono custodite da guardiani impenetrabili. O forse almeno parzialmente ibernati. Sulle torri si può salire. Sono state le prime 'scalate' di una vacanza molto spesso abbastanza ripida. 
La Torre del Tamburo cova in cima una grande stanza, rosso sangue di bue il colore predominante, come in quasi tutte queste vestigia. E una collezione di alcuni antichi modi cinesi di calcolare il tempo ante orologio. Mai visto prima, per esempio, il sistema di bruciare lunghi 'vermi' di incenso della durata standard. Uscendo sulla balconata la vista su Pechino moderna fa parecchio contrasto e rende l'idea della miscela millenaria. Qui fuori sono attaccati i tempi salienti dell'anno. Curiosamente c'era il 20 gennaio, tempo del mio compleanno, come giorno più freddo dell'anno cinese e l'8 luglio, compleanno di Flaminia, giorno ancora non troppo caldo ma abbastanza per godere del clima e della natura.
C'è da dire che ovunque nella città lo sky line di Pechino moderna incornicia le meraviglie antiche con un effetto sorprendentemente armonico.
Sul versante opposto la Torre della Campana vanta la sua leggenda. La campana, commissionata al miglior artigiano di Pechino, tale Hua Yan, niente, non veniva fuori. Il suono non cristallizzava, piuttosto gracchiava o imbolsiva al tocco. Come si conviene a ogni despota, figuriamoci imperatore della Cina, quello di turno non volle sentire ragioni e impose un tempo limite di 80 giorni, oltre il quale il malcapitato campanaro avrebbe fatto la solita fine che fanno quelli che non soddisfano i tiranni. “Tagliategli la testa, tagliategli la testa”, gridò per tutti loro la Regina di Alice in Wonderland. E cosí dixit l'imperatore. Inutile descrivere l'ansia del povero Han Yan. Che, come si deve, aveva una figlia HanXian, convinta che ci fosse qualche spirito avverso al progetto che faceva dispetti e malefici. 


Come sia, l'ultimo giorno ancora la campana non 'quagliava' e il tempo invece stringeva. Allora la giovane HanXian indicò al padre il cielo dove nuvole rosse navigavano tutt'altro che benigne e, mentre il mastro campanaro si distraeva con il cielo, lei si gettò nella fornace. Inutile cercare di salvarla dal metallo ribollente. Allora il P adre, per onorarla, ordinò "fondete la campana”, che questa volta emerse perfetta dal magma. Insomma, nessuna cultura rigetta miracoli e sacrifici... 

martedì 17 febbraio 2015

Alternative social



Una settimana senza social network. No Facebook, no Twitter, no instagram, no whatsapp, no google e i suoi compagni. In Cina, come si sa, i più elementari (per noi) mezzi di comunicazione interpersonale sono interdetti. Quindi, atterrati a Pechino cala il muro del silenzio. Certo, si può installare un Vpn che permette di aggirare l'ostacolo e certamente se uno dovesse trascorrere più tempo lì bisognerebbe farlo, pena la perdita di 'esistenza sociale'. Ma per pochi giorni, valeva la pena di sottoporsi a questo esperimento. Si tratta di superare qualche crisi di astinenza. La prima dopo un paio di giorni. Ho cercato compulsivamente di dotarmi del suddetto Vpn, ma... Troppo tardi... Mica sono così sprovveduti, i cinesi, che quando sei entrato in casa loro, ti permettono di usare le tue regole e non le loro. Quindi, no way. Si scrive, ma non si pubblica. E penso si veda una certa mancanza di sistema nei post 'postumi'. 
L'esperimento non é stato però negativo. Per la verità, dà un po' le vertigini. Ma é come per una performance sportiva: arrivati al traguardo, ci si guarda indietro orgogliosi, 'ce l'ho fatta!'... Valutazione semiseria per social addicted... 
Per i cinesi vivere senza le reti occidentali non fa differenza. Loro hanno Wechat e altri sistemi alternativi di restare collegati. Anzi, direi che sono sempre connessi. Mi raccontava il mio amico cinese Ke che anche sua nonna usa wechat. Ed é tutto dire. Ma che lui ha bloccato sia la nonna medesima che i suoi genitori che così non possono vedere i suoi scorci di vita. Però, notazione a margine, la fidanzata gliel'ha fatta conoscere sua madre... 


In ogni caso, anche i cinesi sono parecchio social-compulsivi. Anche perché questo Wechat é un po' Facebook, un po' whatsapp, permette conversazioni collettive e condivisione di foto. Insomma, a occhio e croce, potrebbe estendersi rapidamente oltre i confini della Cina. Altri social usati sono Taobao e Chiucchiu. “Tutti questi sistemi di comunicazione”, mi diceva chi di Cina si intende, “sono fortemente monitorati e controllati. L'attenzione delle autorità su media e Internet é capillare. Alcuni argomenti sono tabù.  Tienanmen, per esempio. È normale che quando ci si avvicina alla ricorrenza ci sia una impennata nella stretta. Anche il Tibet é argomento sfavorito e gli Uguri.  Ma i cinesi hanno immaginazione e inventiva e hanno trovato modi alternativi per comunicare. Si intendono per allegorie e utilizzano, stratagemmi propri della lingua cinese per aggirare maglie censura e controlli”. 



lunedì 16 febbraio 2015

Italia-Cina: Amb. Bradanini, la grande occasione dell'Expò/Adnkronos

In vista della mia vacanza a Pechino ho provato a contattare l'ambasciatore italiano per una intervista e molto gentilmente l'ambasciatore Bradanini mi ha ricevuto. Questa la nostra chiacchierata in sede, pubblicata su Adnkronos. È un po' lunghetta e, ahimè, quasi tutta economica. 

   



Pechino, 15 feb. (AdnKronos) (Cor/AdnKronos)*

L'ambasciata d’Italia a Pechino si trova in uno dei quartieri che ospitano le rappresentanze straniere: strade a perpendicolo con lunghe file di palazzi, generalmente di media grandezza, cancelli montati da coppie di guardie cinesi sull'attenti nonostante il freddo intenso. Nessuna di loro rivolge mai lo sguardo all'interno, che viene invece sorvegliato attraverso grandi specchi. I visitatori in uscita sono quindi attesi con altrettanta attenzione di quelli in entrata. 
L'ambasciatore mi riceve puntuale. Alberto Bradanini, 65 anni, una passione per la Cina e l'oriente che si manifesta man mano che il colloquio va avanti. In conoscenza ed entusiasmo. A cominciare dai diritti umani per i quali invita a badare più alla sostanza che alla forma.  Ma sono soprattutto le opportunità economiche, a cominciare dell'Expò, che offrono i rapporti bilaterali a essere al centro dell'intervista con l'Adnkronos.  
“La crescita della Cina sta rallentando negli ultimi tempi. Che cosa cambia nel quadro economico?”. 
"La Cina sta rallentando la sua espansione, ma attenzione a leggere bene i numeri: nel 2013 la sua economia è cresciuta del 7,6% e nel 2014 del 7,4%. Questo vale un terzo del pil italiano. Vuol dire che la Cina cresce in tre anni quanto l'Italia. Le prospettive del 2015, secondo il governo cinese, parlano di un 7,1 %. Nella più pessimistica delle ipotesi siamo comunque su un tasso di crescita del 6,5% annuo. Bisogna considerare che i fattori di produzione sono molto tesi e incrementi ulteriori di crescita sono molto difficili. Ma direi che una flessione della crescita è un elemento positivo perché il tasso di crescita non è equivalente alla creazione di vera ricchezza. Anzi, a volte addirittura la distorce”. 

“Che cosa significa, in termini di vita reale, per la Cina?”
“Poiché il governo cinese è stato costretto ad accettare questi numeri al ribasso, si rivolgerà a soddisfare la domanda interna, al momento quasi ignorata. Infatti, finora la crescita della Cina si é basata molto su export e investimenti e molto poco sulla domanda interna, che può essere invece sfruttata e lo sarà sempre di più.  Adesso il tasso di risparmio delle famiglie cinesi è intorno al 55 per cento, numeri di altri tempi per l'Occidente, abituato al welfare. Ma in Cina si sta cercando di assicurare maggiore protezione sociale, partendo dalle città, dall'impegno pubblico, dai dipendenti delle grandi aziende (anche private), per arrivare alle zone rurali, finora per forza di cose trascurate da questo punto di vista". 

"E' un bacino immenso, circa 650 milioni di persone di potenziali consumatori -sottolinea l'Ambasciatore-  i soldi che adesso i cinesi destinano al 'salvadanaio' in via precauzionale, con una maggiore copertura sociale potrebbero essere investiti in consumi. L'obiettivo di rafforzare la domanda interna è inevitabile per sfuggire al problema di sovrapproduzione che si è posto con la crisi economica europea. Non va dimenticato che l'Europa per la Cina è il primo mercato di export. La Cina è un Paese solido con un debito pubblico centrale molto basso, mentre quello consolidato dei governi locali è molto più alto, ma sempre contenuto rispetto agli standard europei. Inoltre dispone di riserve valutarie di oltre 4 mila miliardi di dollari, che corrispondono al doppio del pil italiano”.
“Quindi la vita in Cina sta cambiando?”
“La Cina è la fabbrica del mondo, grazie anche a un costo del lavoro molto basso. Restano sul campo numerose sfide, a cominciare da quella ambientale oppure quella relativa alla sicurezza sul lavoro. Vi è poi il fenomeno dell’accelerata urbanizzazione, con masse enormi di popolazione che ogni anno si trasferiscono dalle campagne alle città, ponendo non poche problematiche agli amministratori locali: questo è peraltro uno degli ambiti operativi in cui può esservi una fruttuosa collaborazione tra Italia e Cina".
“In questo quadro quali sono le opportunità di export per l'Italia in Cina?”.
“Il commercio bilaterale ci vede al momento perdenti, ma non solo a livello nazionale, dove abbiamo un deficit annuale di circa 15 miliardi; se pensiamo all’intera Unione Europea, il disavanzo commerciale ammonta a 150 miliardi. In generale, i prodotti europei e italiani restano troppo costosi per la maggioranza della popolazione cinese. Diverse, forse, le prospettive future: la classe media si sta rafforzando e allargando e, potendo disporre ormai di un potere d’acquisto comparabile a quello occidentale, sempre più si orienta verso i beni d’importazione. Il Made in Italy, attraverso i suoi brand più famosi (la proprietà dei quali - va però detto - in molti casi non è più italiana) fa profitto e registra trend in crescita. Il fenomeno ha comunque proporzioni limitate, considerando che le famose tre F (food, furniture and fashion) totalizzano non più del 15 per cento del nostro export verso la Cina”.

“E il resto?”. 
“Il resto sono soprattutto macchinari e attrezzature, all'85 per cento. Noi esportiamo per circa 11 miliardi di euro prodotti afferenti alla meccanica avanzata e alla robotica. Anche guardando agli investimenti produttivi, si registra un forte disavanzo: a fronte di uno stock di circa 12-13 miliardi di investimenti italiani in Cina, i cinesi hanno investito da noi per non più di 2-3 miliardi. E’ anche vero che in questi ultimi 10 mesi il loro interesse per il nostro Paese appare crescente. In questo periodo i cinesi hanno acquisito forti partecipazioni nelle reti Snam e Terna, soprattutto per acquisire tecnologia. Poi Shanghai Electric ha investito in Ansaldo Energia. Inoltre, entità cinesi, tra cui la Banca Centrale, hanno investito oltre la soglia del 2 per cento in una lunga lista di aziende italiane come Eni, Enel, Fiat, Finmeccanica, Mediobanca e Telecom. Si tratta fondamentalmente di investimenti di borsa, che però implicano un giudizio positivo sulla nostra economia e sulle sue prospettive”. 
“Questo è l'anno dell'Expo di Milano. Qual è la posizione della Cina rispetto a questo evento?”.
“L'Expo è una grande occasione. La Cina ha tre padiglioni, uno governativo, uno di una grande società di edilizia (la Vanke) e il China Corporate United Pavilion, che raccoglie un ampio numero di imprese. Durante l’Expo saranno il teatro di molteplici eventi e iniziative di sicuro richiamo sia per il pubblico internazionale che per i numerosi turisti cinesi che si recheranno a Milano per l’occasione. L'ambasciata e il governo stanno lavorando molto per promuovere il turismo in Italia. L’aspettativa è che i turisti cinesi che giungeranno a Milano decidano di prolungare il loro viaggio per visitare anche altre città italiane: dobbiamo però essere abili nel promuovere queste destinazioni nel contesto di un “Prodotto Italia”, evitando quelle azioni di marketing territoriale basate su eccessivi regionalismi e parcellizzazioni che non farebbero mai presa sul turista cinese". 

“Con la sua esperienza nei rapporti bilaterali, cosa suggerisce per migliorare lo stato delle relazioni economiche tra Italia e Cina?
“Abbiamo avviato l'anno scorso un Business Forum Italia-Cina, una piattaforma dove si possano incontrare in modo informale gli imprenditori dei due paesi. Abbiamo individuato cinque aree di cooperazione prioritaria: urbanizzazione, sanità, agricoltura, ambiente, aviazione e aerospazio, settori dove anche il governo cinese vuole investire per una crescita più equilibrata. Per ognuno di essi abbiamo elaborato dei “pacchetti” documentali che illustrano alla parte cinese le opportunità esistenti, identificando anche una serie di operatori economici attivi in Cina (oppure interessati a questo mercato) che possono proporsi come partner agli interlocutori locali". 

“Come?”.
“In tempi di globalizzazione dovremmo proporre alla Cina una prospettiva di integrazione strutturale tra le nostre due economie. Anche se sempre meno, restiamo tuttora complementari, abbiamo punti di forza e possiamo fornire tecnologie di eccellenza. Spetta a noi, governo e istituzioni, stimolare la parte cinese a dare attuazione a questi impegni volti a riequilibrare le asimmetrie di cui si è parlato".
“E rispetto alla politica estera?”.
"La politica estera cinese è, da sempre, particolarmente attenta al rapporto con i vicini asiatici, nonostante il persistere di alcuni contenziosi territoriali. Si registra inoltre un riavvicinamento strategico con l’economia russa, in parte favorito dalle recenti sanzioni europee introdotte a seguito della crisi ucraina, che hanno determinato una crescita degli scambi tra i due Paesi (ad. es. gas russo verso la Cina e derrate alimentari cinesi verso la Russia)". 





La guardia di Tienanmen




A Pechino senza visitare piazza Tienanmen? Non se ne parla proprio. Anche se, facilissimo non è. Per carità, niente di palpabile. La piazza é lì, è la più grande del mondo, simbolo della Cina maoista, impossibile mancarla. Eppure, si capisce benissimo che l'orgoglio comunista è di sottofondo come contaminato dai fatti del giugno 1989. Sono passati oltre 15 anni, ma l'immagine del ragazzo fermo davanti a carri armati aleggia sulla piazza, sfida il vento freddo, parla a tutti tra le bandiere rosse impettite. 


Mentre il resto della città si gode una bella atmosfera rilassata, Tienanmen vive stretta su se stessa, un po' assediata da storia e memoria. Le misure di sicurezza sono imponenti, tutta  la piazza è transennata, pare di arrivare a Montecitorio e palazzo Chigi quando i palazzi non si sentono amati. Qui però almeno si può entrare anche senza tesserini vari. Passi i metal detector e entri. Ma intorno alla piazza e dentro, i soldati sono ovunque. Marciano. In truppe o da soli. Oppure montano la guardia. Sono solo qui. Nel resto della città se ne incontrano anche parecchi a sorvegliare, ma irradiano gentilezza e sicurezza. Invece su Tienanmen la faccia è più arcigna. E sorprende. 


Ma, si sa, questo posto è ferita politica e di immagine e l'anniversario dei 'fattacci' provoca ogni anno un surplus di attenzione da parte di un governo altrimenti più attento al bene dei cittadini che ai loro affari. 


sabato 14 febbraio 2015

Ke, la Cina del futuro classica e globale




Ke ha 24 anni e un ristorante di successo in uno dei quartieri 'alti' di Pechino. Ha studiato negli Usa, parla perfettamente inglese, accorda cultura cinese e maniere occidentali con disinvoltura. Tra i viaggiatori è facile stringere conoscenze. Così, attraverso gli americani conosciuti durante la gita sulla Great wall, siamo entrate in contatto con lui, che ci ha invitato a cena nella sua Oriental lounge, locale modernissimo e appena ristrutturato tra i grattacieli della Pechino ultramoderna.


Ke ci ha fatto preparare un menù cinese raffinatissimo, fatto di mille piccole portate e condito 'all'americana' con una  serie scenografica  di cocktail di ogni colore. 
La sua storia è stupefacente alla mente italiana. Dopo la laurea è tornato in Cina, con l'aiuto del padre ha aperto questo ristorante e lo fa filare liscio, impegnato, come ci raccontava, sempre a immaginare miglioramenti e proposte nuove. Con lui e pre lui lavorano 14 persone, dallo chef ai camerieri e lavapiatti. Nel locale spende una decina di ore al giorno, si occupa della materia prima e della gestione. Nonché di accogliere i clienti. Non è un cinese impettito, Ke, ma un ragazzo con un bel sorriso aperto, di stampo occidentale, direi, e un abbigliamento sciolto, giacche su t-shirt, per intenderci. Lavora. Lavora sodo, certo non parte da zero, ma nella sua impresa prende decisioni e responsabilità. 
Dopo la cena ci ha portato in giro per locali trendy, la vita mischiata tra occidentali e cinesi. Ovvero, molti uomini occidentali e molte giovani cinesi donne. Così come ovunque il mondo si sincronizza. Ma l'atmosfera era allegra e scapestrata più che da 'scambio commerciale'... 


E poi, un paio di sere dopo, la cinesità. Partiti gli americani, Ke ci ha invitato a cena ancora. In un locale tradizionale, questa volta. E insieme a Maggie, sua (forse) fidanzata cinese, anche lei laureata negli Usa. Storia probabilmente agli esordi, i due sono assai riservati, ma molto, molto sorridenti come si conviene a chi davvero reciprocamente si approva.  
In questo ristorante, Ke ci ha imbandito la vera cena tradizionale pechinese. Una esperienza difficilmente ripetibile senza un cinese amico a fare da guida e interprete. Infatti, dopo averci fatto leggere un menù illustrato lungo una ventina di pagine, Ke ha ordinato cibi completamente diversi. 
Provo a raccontarli.
L'antipasto freddo arriva su un piatto lungo lungo e stretto. Contiene cipolline di colore verde-blu, pesce essiccato, cavoli con una salsa di rafano, striscioline marrone scuro non identificate ma buone, purè di un vegetale ignoto condito con mirtilli. 
Piatto forte, per me almeno, l'anatra alla pechinese. Che, sappiatelo, consiste in tre portate. La prima è la carne più pregiata con la pelle croccante separata ma come ricostruita. Poi la carne meno saporita e infine un piatto con le ossa e quello che resta della carne fritte. Strepitose. 


La carne si incarta in crêpes sottilissime insieme a una densa salsa marrone portata a parte insieme ad alcuni vegetali tagliati a striscoline fine fine. Ognuno prende ciò che desidera e crea la sua crepe. Ne avrò mangiate almeno cinque. 
A seguire è arrivata una prelibatezza, che tuttavia non è il mio cibo favorito. Si chiama stinky tofu, tofu puzzolente. Si presenta in quadrati marroni fritti e va intinto nel piccante che più piccante non si può. Forse per neutralizzare gli effluvi. Il sapore non è terribile, ma l'odore si. La nostra amica canadese Rachel ne ha mangiati mille pezzi. Ma io non sono una supporter del tofu in generale. 
Vabbè, mi sono rifatta poi con i won ton, come patate fritte da bagnare con una salsa di cipolle trasparente leggermente giallina. E, come se non bastasse, l'agnello, servito in una cuccuma su un fornelletto che la mantiene calda. Piatto eccellente, profumato di abbondante coriandolo (che adoro) con verdure varie. Dimenticavo gli spaghetti cinesi, avvolti di vegetali e altri ingredienti di varia provenienza.


Insomma, una cena invidiabile che Ke ha voluto a tutti i costi offrire. E qui è stato difficile mantenere l'equilibrio tra il normale desiderio di contribuire e l'altrettanto indispensabile necessità di non offendere la cultura che ci stava ospitando. Così, non c'è stato verso. 
E nemmeno abbiamo potuto ringraziare con un drink. Ke è venuto in auto, un suv Porsche, con un cruscotto da astronave. E in Cina è vietato bere anche un sorso di alcol se si deve guidare. Si va in galera per direttissima. Regole più che severe, imposte per contrastare la tradizione cinese, secondo la quale ogni commensale offre un giro di birra mista al liquore locale (o meglio, una birra e tre shortini superalcolici). Un rifiuto è onta terribile. Quindi, prima della legge, finivano tutti sotto al tavolo e, a seguire, contro qualche ostacolo. E dunque a cena abbiamo bevuto solo acqua. 

venerdì 13 febbraio 2015

Le note di Pechino




Pechino canta. Non posso dire che sia una città rumorosa. I clacson sono miti, nessuna sirena a urtare le orecchie, niente urla sgangherate. Il silenzio è sempre riempito da musica. Le strade sono inondate di note. Ogni negozio o ristorante si sente in dovere (o in diritto?) di immettere in strada suoni a suo gusto. Così, camminando si passa da un ritmo all'altro senza pause, le musiche si mischiano, qualche volta perfino si fondono. Ci sono botteghe che, forse per non perdere la faccia o lo spazio, hanno una specie di fotoelettrica per la quale appena il passante entra nel suo spazio si attiva la musica, talvolta un annuncio pubblicitario. 
Anche nei parchi spesso ci sono altoparlanti che diffondono musica. A distanza di circa 20 metri l'uno dall'altro. 


Altra peculiarità di Pechino è la generale pulizia. Ovunque ci sono uomini e donne che a bordo di trabiccoli a motore eliminano ogni minuscolo pezzetto di carta con appositi bracci meccanici con pinzetta o spillo finali. Raccolgono o infilzano. 
La città è sempre sveglia. A qualunque ora ci sono negozi, bar, ristoranti aperti, alcuni stanno per chiudere, nello stesso tempo altri stanno per aprire. Si mangia sempre, colazione, cena, pranzo non sembra esserci una differenza nei menù. E anche gli orari sono a flusso ininterrotto. Lo street food viene prodotto a getto continuo. Questo soprattutto nella città vecchia, dove la proporzione tra negozi e ristoranti è nove a uno per i ristoranti. Nei quartieri dei grattacieli e i negozi si prendono la rivincita e le bancarelle di cibo con i loro fornelletto striminziscono". Camminare in città non dà mai senso di pericolo. Nessuno è aggressivo, nei vicoli come nelle grandi arterie si va accompagnati dai fatti propri e basta. 
L'inquinamento ambientale qui è terribile. Onestamente, più perché lo si sa che perché si sente. Sono pochi quelli che girano con la mascherina, ma secondo i dati la qualità dell'aria é impossibile. I nostri otto giorni sono stati illuminati dal sole, più o meno sempre, e l'aria non sembrava cattiva. Però la situazione di solito è più offuscata. Così, il governo ha deciso di introdurre limiti alla circolazione e ogni giorno ci sono due numeri finali di targa che non possono uscire. Molti usano i pronipoti delle biciclette, che pure resistono su piazza: biciclette ma con un motore piccolo, penso elettrico, e silenziosissimo. Così che se non fosse per lo scampanellare furioso, ti arrivano alle spalle come in un agguato. Contro il freddo in motorino, proprio scooter non li chiamerei, sono più una scopiazzatura del vecchio 'Ciao' Piaggio, qui c'è una versione pechinese delle copertine. È un manicotto fatto a T: l'asta orizzontale copre il manubrio e per guidare ci si infilano le mani dentro mentre la parte verticale copre (più o meno) le gambe. 
I taxi sono innumerevoli e super professionali. Intanto non credo che possano avere la licenza se parlano una sola parola di inglese. Però nessuno di loro si sognerebbe mai di partire senza attivare il meter. Costano poco. Per attraversare la città bastano una decina di euro, per l'aeroporto dal centro antico poco più. Considerando che in questo momento ragionare in euro non é una idea vincente. 
E che dire dei cani? Strade riempite dai famosi pechinesi? Assolutamente no. La caninità è incarnata qui da una specie di mini barboncino, di quel marrone riccioluto un po lucido sintetico dei peluche. Insomma un pupazzo vivente. Non c'è solo questa razza, naturalmente, ma va per la maggiore. 
I pechinesi intesi come abitanti hanno un grande amore per i loro cuccioli. Se ne vedono parecchi in giro. La cosa peculiare è che nei giorni più freddi tutti questi cani, abbondamentemente provvisti di pelo folto, vengono vestiti e addobbati come umani. Ci sono cani in jeans, cani in pelliccia (superflua, no?), cani in t-shirt o con il collo alto. Insomma, cineserie canine... 


giovedì 12 febbraio 2015

Bagni comuni(sti)


    La foto dei bagni ce la risparmio. Meglio puntare sul futuro dell'edilizia anche igienico sanitaria 

Tra le usanze più bizzarre mai incontrate in viaggio, c'è questa via cinese alle toilette. Almeno a Pechino, i bagni sono solo pubblici. Non esistono bagni nei ristoranti o nei bar. Ogni poco, invece, nelle vie principali ma anche all'interno dei quartieri, ci sono bagni pubblici. Quelli, per capirci, che in Italia uno non degnerebbe mai di uno sguardo. Meglio morire che addentrarsi in una di quelle esperienze. E poi, ovunque nel mondo, c'è la valida alternativa degli hotel, dei ristoranti, dei caffè. 
Invece a Pechino, l'unica possibilità sono le toilette comuni. Addirittura, se si è a cena fuori, si esce dal locale e si cerca il bagno più vicino, poi si rientra. 
E il bello, per così dire, è che l'idea cinese del bagno è totalmente avulsa dal concetto di privacy. 
Cioè, si entra in una stanza, più o meno grande, con tutti cessi alla turca allineati e senza alcuna separazione, nemmeno un paravento, niente. E pure la porta d'ingresso è generalmente lasciata aperta. Così, qualunque sia il bisogno che spinge una persona in bagno, niente viene concesso al privato.  
Insomma, vestigia del comunismo spinto all'estremo.... Certo, nella parte nuova della città le cose vanno un po' meglio. Lo stile preponderante è quello 'aeroporto' è uno si sente un po' più a suo agio. 
Per legge del contrappasso i cinesi detestano che i cani usino le gomme delle loro auto per ispirare bisogni. Usanza comune a tutti i cani del mondo. No, qui no. È insopportabile. Così la sera negli hutong (i quartieri interni) le auto ferme accessoriare con tavolette di legno poggiate su ogni ruota come deterrente. 

martedì 10 febbraio 2015

Domenica pechinese

 Domenica, 1 febbraio 


Domenica, primo giorno in città. Siamo partite di buona lena per un lungo giro turistico e invece no, pian piano ci siamo fatte trasportare dall'atmosfera e siamo state avvolte dalla festa. Diligenti siamo  salite sulle due torri, la Torre del Tamburo e la Torre della Campana. Ne parlo a parte, se lo meritano. Da lì si domina il paesaggio e si individuano le altre piccole colline della città, ciascuna ospita un parco e una bella costruzione in testa. 
Girovagando rigorosamente a piedi, non più di una decina gli occidentali avvistati, ci siamo sintonizzate sulla lunghezza d'onda generale. Domenica di sole, sui laghi ghiacciati chi può pattina, gli altri affittano strane creature mitologiche, metà slitta metà bicicletta, e si lanciano con quelle.



Chi cammina, generalmente lo fa con del cibo in mano. Il passo è orientale, per noi lentissimo e svagato. Abbiamo superato mille mila persone, mai uno che camminasse più veloce di noi che pure non stavamo andando da nessuna parte. Anche noi abbiamo comprato street food, uno strano calamaro infilzato su uno spiedo e fritto con tutti i suoi tentacoli. Buonissimo. 


E poi ecco Jingshan Park, a ridosso della Città proibita. Salendo in cima lo spettacolo è degno delle migliori stampe cinesi.



 Ma è il parco stesso a riservare una sorpresa. Gli abitanti di Pechino la domenica ci vanno a cantare. Già salendo fino al tempio sentivamo gruppi di voci, siamo andate a vedere e c'erano capannelli di persone, per lo più divisi tra uomini e donne, che cantavano. Alcuni più virtuosi rappresentavano chiaramente il nocciolo, altri andavano e venivano, partecipavano a una canzone e lasciavano. Accompagnati da musici diversi. Fisarmoniche o chitarre. Microfoni o no. I gruppi più numerosi avevano anche una specie di direttore del coro. 


Poco più in là, invece, i gruppi di ballo. La versione cinese del liscio, una specie di classe di aerobica, un danzatore simil mongolo esibiva il suo a solo. 
Abbiamo bighellonato tutto il giorno, insomma. Il piacere di una sosta in un ristorante nel quale per ordinare abbiamo dovuto indicare i piatti altrui. Certo, peccato per quel topo che è sfrecciato dalla cucina fino  sotto la credenza... Meno male che stavamo già chiedendo il conto...

The Great Wall




Inevitabile la gita da Pechino alla Grande muraglia. Ma non la 'solita' gita, quella dove incontri plotoni di turisti inconsapevoli. Noi abbiamo scelto di sfidare la parte confinante con la (ex) Mongolia, a tre ore di auto dalla città. Percorso fisicamente impegnativo. Solo sei km, ma con dislivelli pari a 126 piani (la app dell'iPhone docet), sali e scendi con una temperatura piuttosto bassa e chiazze di neve a dimostrarlo. Ma dopo cinque minuti di buon passo, il freddo non si sente più, anzi. Via il cappello, via i guanti, puoi solo ammirare la processione di torri a perdita d'occhio inutile dire che, oltre al nostro saputo gruppo di una decina di temerari, non c'era nessuno. I negozi di paccottiglia ai piedi del percorso chiusi, i venditori free lance scoraggiati.


   


 Unici impavidi, una coppia di vecchietti a mezza via con una rudimentale cassetta con bevande varie. Fredde al naturale. Una meraviglia, la grande muraglia completamente deserta. L'atmosfera permette di tornare indietro di qualche secolo. Riflettere su quante migliaia di persone abbiamo contribuito a costruire questa meraviglia lunga 600 km. Piccola immortalità controvoglia. I tratti marcatamente mongoli delle guardie, molto diversi dai cinesi di Pechino, aiutano ad assorbire una storia poco conosciuta quanto avventurosa e affascinante. Appaiono duri e impenetrabili sotto i colbacchi con la stella rossa, ma se si prova a comunicare si aprono in sorrisi illuminati. E a gesti gentili. 

    
Il cammino è battuto dal vento, come si conviene. Anche questo fa contorno. Alcuni gradini vanno davvero scalati, sono alti più o meno 30 centimetri, richiedono muscoli. E alcuni tratti vanno in pendenza quasi da free climbing. La tentazione é passare al quattro zampe, che sembra più facile, ma no, meglio di no. 


Le torri sono periodiche. Alcune meglio conservate, altre tendenti al diroccato. Il panorama credo l'abbiano visto tutti in questa o quella foto, ma, nemmeno a dirlo, un giorno di sole d'inverno lascia la sua traccia di emozione. 
L'ultima torre si chiama 'dei cinque venti' e quando ci si arriva si capisce che non si sono tanto sforzati con la fantasia. Potevano anche chiamarla dei cinquemila venti e sarebbe stato giusto lo stesso. 
Le guardie mongole con il loro colbacco lasciano il passo, ci aspettano per chiudere la porta dietro di noi e finalmente chiudere la muraglia per la notte. L'ultimo tratto va giù a perdifiato. Le gambe tremano un po' perfino a una allenata come me. Ma l'impresa è tutta di felicità.,

lunedì 9 febbraio 2015

I misteriosi ravioli magici dell'imperatore immortale

Il 
    Sabato, 31 gennaio

Ovvero, primo impatto con il cibo cinese. A prima vista, la percentuale di ristoranti su altri negozi a Pechino è circa di nove a uno. Grandi, piccoli, medi il cibo sembra occupare una porzione assai sostanziosa della vita quotidiana e delle attività dei pechinesi. Per l'esordio gastronomico abbiamo scelto una piccola bottega sulla strada che porta al Lama Temple e al tempio di Confucio. Posto piccolissimo e sobrio rispetto a palazzoni vicini dalle insegne sgargianti e alte circa tre piani.



A mano, fuori un cartello assai allettante nella sua rozzezza prometteva “misteriosi dumpling magici dell'imperatore immortale”. Impossibile resistere. Così, nonostante l'appeal “moderato” del luogo, abbiamo osato. Dentro una coppia di cinesi con zero conoscenza di altre lingue e menù solo in cinese e di soli ravioli al vapore. Ne scegliamo uno a caso, in fondo erano le cinque di pomeriggio, nè pranzo, nè cena e dopo una ventina di minuti, il tipo di scodella un piatto con una quindicina di enormi ravioli di una bontà celestiale. Prezzo, circa tre euro. Decidiamo che sarà il nostro punto di riferimento, in fondo è a due passi dell'albergo.