sabato 18 luglio 2015

Due giornate in una senza cambiare fuso orario



Possibilità che solo un viaggio offre: vivere due giornate in una. Ma non è una acrobazia da fuso orario. Piuttosto una prova di resistenza tutta europea alla quale mi sono sottoposta volontariamente e con temerario sprezzo del pericolo. Tanto più che è venerdì 17 e, dilla come ti pare, l'inciampo può sempre essere dietro l'angolo. Ma vivere noiosamente, o almeno con calma, proprio non ce la faccio? Mi domando talvolta. No. Non ce la posso fare. 


Dunque il viaggio é semplice semplice e diretto, Manchester-Roma, nemmeno tre ore, che vuoi che sia, quasi una passeggiata. Il problema si annida nell'orario. L'unico volo tra Manchester e Roma è un Ryanair che parte alle 6.30 del mattino. E io sono a Lancaster. 
Dunque il viaggio si svolge così. Partenza da casa di Flaminia alle 2 di notte in taxi. In dieci minuti sono al parcheggio notturno dei bus. 


Sono sola nel buio con un bel vento ringhioso che mi sbatacchia per una mezzoretta. Arriva il bus e in un paio d'ore sono a Manchester airport. Lì c'è la trafila dei terminal, ma ormai sono veterana e vado anche senza guardare le indicazioni. 
Il volo parte alle 6.30. C'è il tempo di un caffè e un toast. Arrivo a Roma alle 10.10 local time. La temperatura è salita di almeno 20 gradi rispetto alla partenza. Così mi piace.
Rinvigorita dal caldo, prendo il bus per Termini. Una questione di principio perché i tassisti di Ciampino sono poco raccomandabili e non mi va di spendere un centesimo con loro. Il bus è un'oasi di civiltà inaspettata. Nuovo, pulito, autista cortese, Wi-Fi con username e password stampati sul biglietto. In 40 minuti sono a Termini. Brevissimo tragitto fino ai taxi, dove becco una driver donna molto simpatica, che mi porta a casa con il tragitto miracolosamente più breve. 
Una doccia, abiti un po' a casaccio e al lavoro in scooter. Arrivo al Palazzo dell'informazione intorno alle ore 12. Circa 10 ore dalla sveglia. 
E qui comincia la mia seconda giornata. Indosso rapidamente i panni diversi e mi calo nella routine, si fa per dire, lavorativa. Come sempre niente pranzo. Ora di uscita, le 20 minuto più, minuto meno. Sarebbe a dire altre otto ore filate. Pare senza incidenti. Spengo verso mezzanotte. 22 ore a molla.
Diciamo che è un record che ho voluto incidere nella mia storia personale. 

mercoledì 15 luglio 2015

Graduation


Lancaster, 14 luglio 2015. Alla fine il grande giorno è arrivato. La presa della Bastiglia a noi ci fa un baffo. Evento minore. Graduation. Sono passati tre anni e tonnellate di acqua sotto i ponti. Una vita fa abbiamo accompagnato Flaminia, occhi spauriti per restare sola in college e cuore di leone nel volerlo. Oggi se ne sta perfettamente a suo agio, fluttua in tocco e toga e sfoggia amici di ogni dove e disinvoltura consumata. 


Fino a un certo punto, eh. Perché, arrivati qui verso le 9 di mattina, pronti ad entrare nella sala per la graduation delle 11, ecco che leggo il mio biglietto di ingresso e scopro di dovermi andare a sedere alle 3.30. Una piccola discrepanza che mi lascia perplessa. Solo così Flaminia scopre che si laureerà nel pomeriggio. 
 




Dettagli, no? Un po' di nervosismo, diciamolo, serpeggia. Ma ben imbrigliato per cui lo nomino solo per dovere di cronaca. Seguiamo la cerimonia delle 11 da un maxischermo. Il discorso del rettore emoziona, laureandi e genitori. Fa piacere sentire parole che non sono vuote, che ci sono posti dove le opportunità si concretizzano e parlare di futuro dei ragazzi non strappa sorrisetti melanconici. 


Il colpo d'occhio è emozionante. L'abbiamo visto in mille film e telefilm ma trovarsi proprio 'sul set' è proprio diverso. Insomma, vederla lì in quella cornice riempie di orgoglio, ammettiamo. 
I docenti indossano toghe colorate, rosse, gialle, blu. Hanno fogge che ricordano regni medievali, cappelli elaborati, si inchinano prima di prendere la parola. Sulla balconata che corre intorno alla sala, musicisti scandiscono il rito. “Questo è il risultato di un lungo e duro lavoro. Quello che avete imparato qui lo porterete per tutta la vita. Non so che cosa farete della vostra vita, ma vi garantisco che la vostra laurea sarà un passaporto per il mondo. Credete in voi stessi, solo così raggiungerete i vostri sogni”. Sono parole che entusiasmano in modo quieto, determinato. 
Queste lauree sono rappresentazioni solenni. Il rettore legge nome per nome. E poiché a Lancaster si laureano da ogni dove, deve scandire nomi di tutte le nazionalità, un sacco di cinesi. Fa come può e si vede che un po' si ride addosso.
I vestiti di gala sono d'obbligo. Serpeggia lo scandalo di un ragazzo che sotto la toga indossa jeans e maglietta. Oddio, per quello che mi riguarda, lo biasimo solo perché ci saranno 12 gradi e l'abbigliamento estivo proprio non lo consiglierei. Ma anche in questo caso la forma è sostanza, rispetto delle istituzioni e del lavoro svolto. 


Così come la foto del college sul prato, per fortuna momentaneamente assolato, ubbidiscono a un copione preciso. I giovani si mettono in riga con precisione, sono coinvolti nella solennità. C'è una specie di maestro della cerimonia che dirige con tanto di megafono. E poi, il lancio liberatorio del cappello, le foto tra amici, baci, abbracci e tutta la compagnia bella di una festa riuscita perché vincono tutti. 

 

Il tassista indiano che ci riporta un albergo sbircia l'attestato di Flaminia e scherza: “dopo tre anni ti hanno dato solo questo? Sarà costato 60mila pound... Il pezzo di carta più costoso del mondo...”. Punti di vista.  In parte ha pagato la Regina. Vuoi mettere? 


lunedì 13 luglio 2015

Non di soli ulivi



Dici Puglia e pensi ulivi. Non è automatico il contrario. A me questa regione così grande e assolata sta simpatica. Ha una sua dimensione allegra e pigra, le focacce ridono di gusto, i taralli chiacchierano pettegoli, i nodini si intrecciano con purè di fave e cicoria. Ho guidato tre giorni e 450 chilometri per il Salento, strade dritte dritte a rischio ipnosi, muretti a secco che pare quasi Sardegna. Attraversi paesi polverosi, case basse, colori sporchi, attrattiva zero.



 E di colpo sbuchi nella magnificenza di una piazza, una cattedrale incongrua, una villa fastosa. Roba che racconta tutt'altra storia. Il caldo non si fa guardare dietro, è vero. Ma il colpo d'occhio di questi paesi è che sembrano abbandonati. Negozi chiusi, persiane strette, vie inanimate. Sembrano abbandonati e non lo sono. La controra infinita. Le macchine le incontri con il contagocce. Vanno lentissime o velocissime e in questo caso ti si piazzano a un millimetro dalla coda, impazienti di sfrecciare all'orizzonte. Andamenti da crociera, magari pure nei limiti di velocità, non sono contemplati  dal guidatore pugliese medio. 


E poi ci sono le città delle meraviglie. Non le voglio chiamare gioielli perché la banalità della definizione le offenderebbe di certo a morte. Hanno personalità, cultura, raffinatezza. Sono anche belle donne, diciamolo. 


Si lasciano ammirare, ben sapendo di non aver bisogno di trucco e parrucco per piacere. Così, a parte un paio di inevitabili vie commerciali zeppe di luoghi comuni, angoli e vie si scoprono con il naso per aria e gli occhi tra portoni e cancelli. Dalle terrazze spesso grandi piante mediterranee guardano giù, mentre i classici balconcini, infilati sulle facciate, si spintonano per le inferriate più belle.


Lecce compare sabbiosa, Ostuni e Otranto parlano la stessa lingua immacolata attraverso il mare. Dentro le città poca verzura, tutta affidata a cortili e terrazzi. O alla villa comunale. 
La Grecia è a due passi e lo senti non solo per cultura geografica ma nelle k che compaiono inaspettate nei nomi, in un certo rigore, una specie di tendenza all'essenziale che sembra trama e stile. 


Anche se parliamo di barocco, la ridondanza si applica su strutture squadrate, le radici ben ficcate per terra. E quella ritrosia di tenere la vita dentro le mura, proteggere senza ostilità. 
E poi c'è il lato mare. Bello e impossibile. Impraticabile. Prendi Porto Selvaggio, per esempio. Riserva naturale. Pineta fascinosa tutta da camminare. Arriva quasi con le radici nell'acqua.



 La spiaggia è libera. Ma l'affollamento è da alto Adriatico, senza confort però. Sarà anche che il tacco di Puglia affonda tra due mari e due venti. Così lo scirocco consiglia un lato, la tramontana l'altro. E i bagnanti si spostano seguendo il vento, tutti insieme. Il risultato è affollato.



 A Porto Selvaggio, per esempio, gli autoctoni si annidano tra gli alberi, da dove sbucano solo per entrare nell'acqua. Fredda. Non nuotano. Stanno stanziali, tutti a pochi centimetri l'uni dall'altro. Lo stesso accade negli altri posti bellissimi che offre la costa. Il mare è blu cartolina, le rocce disegnano forme suggestive e piscine naturali trasparenti. Però la calca fa disamorare. 


E queste, ovviamente siamo noi. 

Criminal taxi




L'impudenza fermamente inconsapevole dei tassisti romani non finisce mai di sorprendermi. Cioè, fanno cose assurde e illegali con l'aria più naturale del mondo e se glielo fai notare cadono dalle nuvole e assumono l'aria dell'innocente incompreso. Sabato sera. Anzi notte, quasi l'una am. Aeroporto di Fiumicino. La fila dei passeggeri è inesistente, quella dei taxi consistente. Sento uno chiedere al nostro tassista se “c'ha 'n singolo”. Liquido la questione come gergo di iniziati. Ma, mio malgrado, vengo subito edotta. Infatti, una volta a bordo, l'autista tenta il colpo gobbo e ci chiede se possiamo prendere un altro passeggero. “Porto prima voi, eh”, assicura. E meno male, troppa grazia, penso. 
Tale la meraviglia, comunque, che non abbiamo la prontezza di rifiutare. Cosicché sale a bordo una terza passeggera, una ragazza anche carina. Ma il punto non è questo. 
Partiamo. No tassametro. Dunque, sommessamente -per essere io- domando se il prezzo è fisso. Lui prova a sparare che sono 65 euro fino a casa mia. Respingo l'idea con fermezza. Glissa. Durante il tragitto ci informa che lui è pensionato ed è andato via dall'Eni (dove aveva raggiunto “l'apice della carriera”) con sette -dico sette- anni di scivolo. “L'ho preso al volo, capisce che ce sta ggente che è rimasta a lavorare pe' i buoni pasto?”, racconta tronfio e sufficiente. Si lamenta che deve “fare la notte”. “In poche settimane ho perso nove chili”, farnetica. Preferisco ammutolire. 
La ragazza deve andare a ponte Milvio. Oppure a Conca d'oro. Le sue idee confuse aiutano il tassista a fare giochi di prestigio. Così, evita di far venire l'amico della ragazza da Conca d'oro a casa mia e la spinge verso una corsa fino a Ponte Milvio. 
Arrivati sotto casa, io porgo un biglietto da 50 definitivo. Lui non fa una piega. E lo sento dire alla malcapitata: “dall'aeroporto a Ponte Milvio so' 50 euro”. Quando si dice prenedere due piccioni con una fava. 
Criminale con licenza. 

domenica 12 luglio 2015

La masseria



Tra le cose di Puglia viste in tre giorni la masseria fa gioco a sé. Era l'origine del viaggio, la festa di compleanno di amici gemelli, Sandro e Guido. Nascosta ai più, vanta calore e fascino. L'ospitalità imbandita dal dna. Così la celebrazione si fa giornata intensa, costruita di bagni in piscina, giochi di carte, chiacchiere tra chi si conosce bene e chi per niente. E, naturalmente, tanto cibo prosperoso e saporito. Una atmosfera rilassata, servita con nodini e peperoni ripieni, che solo il sud è capace di tenere. Deve essere il sole impetuoso, deve essere il vento sempre allerta. 




Poco distante dalla masseria, la vecchia costruzione del '500 sonnecchia diroccata. Nasconde enormi camini alti più di uomini alti, mensole ancora imbiancate nonostante i secoli, vecchi arnesi di archeologia contadina. Piante e animali la considerano chiaramente la migliore amica. C'è anche un vecchio aranceto con tutti i frutti selvatici piantati al ramo, nonostante sia luglio avanzato. Cicale al culmine dell'entusiasmo estivo. 

 

Poi, entri in casa e fai ancora un passo nell'ombra e nel tempo. Con tutte le famose comodità della vita moderna, è chiarissimo che lo spirito è antico. Le donne si prendono cura dei manicaretti e ne sfornano in quantità con il sorriso quieto e orgoglioso. Certo, sarà pure che non si cucina più nel paiolo e nemmeno sul fuoco di legna (ma forse anche sì, che ne so io per davvero?) ma i piatti conservano quell'anima lì. E pure il gusto. E poi, come si sa, la cornice esalta il quadro. Quindi, non possiamo mica far finta che quell'aperitivo sterminato sulla terrazza di fronte agli ulivi, le orecchiette e le carni nel giardino protetto da alberi e muri, profumato di menta e fiori, siano la stessa cosa della rosticceria, che so, a viale Libia, no? 


E nemmeno che la musica di un gruppo di ragazzi bravi bravi sia abbia lo stesso impatto di una qualsiasi compilation più o meno sciamannata. Direi che la 'pizzica' cantata, suonata e ballata in 'crescendo' dopo cena resta indimenticabile. 
Non importa se ai tavoli siedono nomi di prima linea, si fa festa e basta. Arrivano torte e candeline, i gemelli sono caldamente richiesti al microfono. 


Uno va, l'altro non lo smuovi manco a cannonate. Della differenza tra TV e carta stampata, direi. Ma le candeline le spengono all'unisono, più o meno. E per una volta facciamo tutti tardi, gufi (in senso buono, eh...)  e allodole. 


mercoledì 8 luglio 2015

Pavoneggiarsi

P

Un tempo era lo zoo e quando ci si andava si faceva ineluttabilmente la foto con il leoncino. O il tigrotto. Molto scorretto politicamente ma allora chi sapeva degli anatemi della natura? Eravamo pecore nere e non lo sapevamo... Oggi è Bioparco. Cambiati lo stile di vita e la filosofia, l'atmosfera è rimasta un po' ferma sulle gambe. Giorno di settimana, afa rovente. Roma si ritrae e guarda altrove. I viali si snodano solitari tra mille profumi di piante colorate. I caffè sono per lo più chiusi. Gli animali pensierosi. Le vecchie gabbie sono in soffitta, adesso tigri, lupi e altri esotismi si muovono liberi in un verde ampio e relativamente appropriato.


 Manciate di pavoni fanno onore a loro stessi ruotando in giro a più non posso. Restano le antiche strutture primi '900 per elefanti e giraffe, grandi spazi e architettura del ricovero ancora fascinosa. Sarà che me li ricordo fin da piccola. Anche la Grande voliera si libra Liberty per sgranchire pellicani, fenicotteri, gru, cigni e altri pennuti non identificati (da me). 


La misura bambino è ben tenuta. Quel filo didascalica, ma irresistibile la ruvidezza della lingua di tigre in plastica rosa e allarmante la processione di credulità popolari sulle proprietà magiche di questa o quella parte anatomica delle grandi (ex?) star di foreste e savane. Stregoni e sciamani come alibi di sterminio. Ma anche una riflessione sull'origine delle leggende metropolitane. 



 C'è Richard il varano di Komodo che proclama, tramite cartellino di avere  quattro anni, essendo nato precisamente il 5 agosto 2011 e di pesare 20 kg all'incirca per meno di due metri testa-coda. Ma, non si sa se per vanagloria o consapevolezza, annuncia misure da peso massimo, 4 metri e 80 kg in pochi anni.  Antropomorfi i nomi degli orsi. Non me li ricordo, ma sono tipo Pino, Lino, Dino. Insomma, non sono questi ma simili. Visto lo sforzo di fantasia potevano chiamarli pure Qui, Quo, Qua. Almeno cartoni e non travet. Molto poco dignitoso per orsi stellati. Poco oltre la famiglia di dromedari. Masticano attoniti, come se quell'erba fosse, diciamo, magica. Forse per questo non hanno nomi. Fanno gruppo e tant'è. 




Illuminanti gli ippopotami pigmei. Dalle pozze giallo sulfureo emerge solo un dorso bruno lucente. Ma come respirano, senza boccaglio? Anche i koati si fanno le loro vasche in acque non proprio cristalline. Loro li avevo visti razzolare in libertà tra i bidoni della spazzatura in Costa Rica. Erano però white nose koati. La varietà a strisce bianche e nere. Questi invece sono marroni, con il muso squadrato e le movenze del castoro. 


Dopo annissimi, sono tornata qui con Flaminia. Invogliata anche dalla dinamica foto delle tigri siberiane sparpagliata per la città. Uno specchietto per allodole, tanto per rimanere in tema. Però gironzolare tra tanti animali, anche se stanchi e annoiati, mi è piaciuto. Sedere sulle panchine all'ombra, chiacchierare  e far i un po' di fatti loro, senza disturbare, anche. 


martedì 7 luglio 2015

Non partire


Non partire. Non è imperativo categorico, piuttosto tempo infinito negativo. Constatazione, più che altro. Luglio e agosto. Domanda classica: dove vai? Che fai quest'estate? No, io non parto in questi mesi. Banale dire che la ricetta prezzi alti, affollamento, traffico, bellezze snaturate, non mi si addice.


 Con sincerità vedo andare senza invidia, progettare percorsi divorati dal traffico e dalla moltitudine non mi appassiona. Il caldo di Roma e dintorni non mi ossessiona, l'asfalto rovente mi fa allegria. E poi, diciamocelo, se tutti gli altri si allontanano, paesaggi e prospettive si ridisegnano sull'assenza e i posti sono nuovi comunque. Sarei anche del parere, e se posso lo faccio, di spostare il week end al lunedì e martedì. O anche martedì e mercoledì. In modo di scontornare definitivamente i mesi estivi. Il Cappellaio matto sarebbe fiero di me. 
Insomma, l'idea sarebbe di fare del periodo d'estate una lunga villeggiatura lavorativa. Non nel senso di trasformare il posto di lavoro in oasi di ozio, naturalmente. Ma di essere diversamente romani e fare slalom orgoglioso tra i turisti. Ma che ne sanno loro dei vestiti di Roma?