lunedì 30 novembre 2015

Il mondo di Cosa



Gioco di parole facile, perfino scontato. Ma gli scavi di Cosa sono un mondo a parte. Visita fuori stagione, fuori orario. Fuori. Cosa se ne sta appollaiata in cima alla montagna di Ansedonia. Per me, solo una indicazione gialla e scrostata sulla via del mare o di casa per parecchi lugli trascorsi lì. Pigrizia, fretta, il classico “oggi no, ma domani...”. Finché, ecco 'domani'. Giornata autunnale, la spiaggia è sotto l'attacco del vento, non invita. Cosa fa da diversivo possibile. Si lavora un po' di gambe per arrivarci, non per niente  la città monta la guardia alla pianura. Romani contro etruschi.  In cima, i ruderi raramente superano le caviglie. Però, quando lo fanno i blocchi di pietra sono ciclopici. Ci si chiede, come sempre accade dalle piramidi in poi, come abbiano fatto costoro a edificare senza le meraviglie della tecnologia moderna. Banalità. D'altra parte ci stupiamo anche della  vita  senza smartphone... Figuriamoci...



 La vista di lassù respira di meraviglia e salsedine anche in una giornata grigia. Il sole lancia spot sul mare, il muro romano fa da quinta. Tra i perimetri accennati sopravvissuti al tempo che fu fa capolino la vita quotidiana. La cisterna, il foro, il teatro. E poi, gli ulivi. Sembrano li dai tempi dei romani, scolpiti dalla vita, si piegano di frutti, vecchi e mai stanchi. 



mercoledì 25 novembre 2015

Incidenti



Non riusciva a credere al suo corpo. La testa rintronava, sul sedere aveva sentito uno schiocco violento, un muscolo rotto nell'impatto. Forse. Subito dopo si era rialzata, spinta dalla rabbia e aveva combattuto, ma poi si era afflosciata di nuovo per terra. Il pavimento freddo e la vergogna. E la paura. Di essersi fatta male davvero. Di averla scampata bella. Di quello che era successo.  “Santo cielo, abito in centro, ho una laurea, una carriera, una famiglia alto borghese...certo, lui viene dalla piccolissima borghesia, gente che in testa sbatte mestoli, non idee o principi. Eppero’...”. 
“Da, alzati che non ti sei fatta niente, smettila con questa manfrina”.
Lui torreggia arrogante. Nemmeno un briciolo di vergogna, lui. Come se fosse una scena ripetuta altre volte, con altre protagoniste. Vedendola strisciare a terra, incapace di rialzarsi, ecco il dubbio. “Ti aiuto, ti metto sul letto?”, propone. Dal suo metro e novanta, la voce arriva fredda, non riesce a rompere il ghiaccio che si e’ formato su di lei. “Vattene”. Lui esce, va. Non sente altro bisogno di prodigarsi.

“Mamma, come va”. “Tutto bene, perché?”. “Mi ha detto lui che ti sei fatta male. Non so, che ti ha spinto?”. “Be’, si’, avrei preferito che tu non lo sapessi, comunque si’, sono a terra, non riesco a muovermi, mi dispiace”. “Mi dispiace??? Ma che è successo?". “Una lite... Mi ha detto di uscire dalla stanza, io ho detto di no e lui mi ha preso di peso e sbattuto a terra in corridoio”. “Vuoi che venga?". “No, grazie, arriva una mia amica. Lui le sta dando le sue chiavi di casa, mi soccorrerà. Tu resta a scuola”. 

“Denuncialo. E’ mio amico da vent'anni, ma devi denunciarlo”. “No, ha una figlia adolescente, come potrei? Lo rovinerei. Ha già lanciato un casco contro un collega. Ha già ’quella’ fama...”. 

Nel letto, pesta di dolore, lei riflette. “Questo e’ (era?) il mio compagno, che è successo? Perché lo ha fatto? Perché mi sono vergognata? Perché lui non si vergogna? Mi ha solo detto ’sei così leggera, sei volata’”. 

Sono partiti insieme. Lui sempre un passo avanti. Lei ancora zoppicante, trascina da sola valigia e pensieri doloranti. In compenso, lui le vieta di postare foto e commenti. “Ho detto a mia moglie che sono partito da solo”. “Ma vi siete lasciati da due anni...”. “Be'? Tu non postare. Sei infantile a insistere. Io lo faccio? Be’, si’, io si”.

L’acqua scorre sulla pelle abbronzata. Visto da sotto, il sole squillante scherza con le onde, la barca a pochi metri. “Signora, e’ stata via tanto, cominciavo a preoccuparmi! E suo marito dov’e’?”. “Ha deciso di tornare via terra, ha mal di mare. Non è mio marito”. Ma la giungla e’ tutta uguale. Soprattutto con gli spessi occhiali in frantumi, con quei mal di pancia incontrollabili, ginocchia e caviglie deboli, tendenza a perdere liquidi. E senza  cellulare poi... Un incidente, che tragedia, tre giorni a cercarlo tra le mangrovie per poi ritrovarlo soffocato nel sudore. Tre giorni di vacanza un poco rovinati. “Come lo rimandiamo a casa suo marito?”. “Non saprei, non era mio marito”. 

domenica 15 novembre 2015

Venerdì 13 novembre, piazza Caprera, Roma




Improvvisamente una sera a piazza Caprera. Un gruppo africano, musica, canti, un minuscolo melting pot. Era venerdì 13 novembre. Negli stessi minuti dei massacri di Parigi, anche io ero ad assistere ad un piccolo concerto, in un minuscolo locale della piazzetta sotto casa. Una birra o due, e questa avvolgente band con la sua musica ritmata e allegra. Si chiama Tribal trio con ironia e orgoglio.  C'è lo xilofono, costruito con una base di zucche. Nel volantino però figurano percussioni. Anche il basso (o come diavolo vogliamo definire quello strumento, nella locandina individuo kora) ha la cassa ricavata da uno zuccone. Inteso come enorme zucca. 



Loro se ne fregano degli strumenti che qui appaiono singolari, perfino abborracciati, siamo sinceri. Sbagliato: sono tappeti volanti per trascinare in Africa e raccontare storie e culture. Naturale, non si capisce una parola delle canzoni, facile che i testi siano scemi come quelli di ogni lingua, ma l'atmosfera prende per mano e fa star bene. 


Come ogni spettacolo che si conviene a un certo punto ecco la diva, una ragazza non ragazzina, che prova a misurarsi da solista, dopo un po' di gavetta come vocalist con Fiorella Mannoia, Loredana Bertè, Luigi Cinque. Viene dal Senegal, si chiama Maam Jarra Guye. Qualcosetta si trova già cercando in rete. 
La serata trascina, c'è gente che balla, tutti ridono, scherzano, si godono l'atmosfera. 
Gela pensare che un po' più su nella stessa Europa, altri come noi passavano una serata così e sono morti. Ogni sorriso annichilisce. Derubati di libertà e confidenza. Ci si sente quasi colpevoli di averla scampata. Lasciamo perdere le ovvietà, sono state dette tutte e non mi unisco. Ma io passerò ancora serate così. Con o senza paura. 
 



giovedì 12 novembre 2015

Henry Moore e la sua cornice



Sono partita per andare a vedere Henry Moore, sono approdata in un mondo sconosciuto dietro l'angolo di casa. La mostra è alle Terme di Diocleziano, giusto accosto alla basilica di Santa Maria degli Angeli, chiesa nota e centrale, visitata varie volte. 


Non posso pensare di non aver mai conosciuto un posto come quello. Grandissimi spazi tutti densi di bellezza e storia. Insomma, per farla breve, mi addentro in questo cancello, pensando di trovare le sculture disseminate in un posto qualsiasi. Invece, qui si tratta di grandezza pura e semplice. 
Alle terme di Diocleziano si accede attraverso un giardino che fa da intercapedine con il mondo romano. Quello vero. Ci sono altari e alberi antichi, cespugli di lavanda che sembrano d'epoca,  e una fontana con tanto di pesci rossi sormontata da un cratere, sorta di vaso, in forma extralarge. Già incuriosita e un po' sorpresa della sorpresa, procedo. 


Il museo si dipana tra edifici, chiostri, terme con frigidarium e piscina in un susseguirsi di angoli e svolte. Il sole di questo novembre eccezionale fa le linee nette, taglia l'ombra e l'azzurro del cielo in modo professionale. 



Così mi godo Moore, i disegni,  le sue sculture in pezzi, le madri con bambino aggrovigliate talvolta con amore, talvolta con rabbia, i suoi dolori di guerra, impegnati a dire 'mai più', le donne sdraiate in tutte le tonalità del bronzo. 



 

E poi lui, il più bello -lo so, scopro l'acqua calda- il guerriero con lo scudo. Sta nel mezzo di uno spazio aperto , si protegge con allarme palpabile, dai fulmini del cielo o dai nemici. Me ne sono innamorata. 



Ma senza nulla togliere a Moore, che aspettavo, sono stata catturata dal posto. Le terme sono splendide. Hanno strati sovrapposti alla romanità originaria. La basilica di Santa Maria degli Angeli si tiene dentro due chiostri spettacolari. E file e file di sale, edifici, scale, scalette, luci, ombre, storie nelle storie e nelle pareti. Non sarei andata via mai a sbirciare dietro tutti gli angoli e ce ne sono di infiniti, mi pare. Perciò smetto di chiacchierare e lascio un po' di foto, che è meglio. 

 



martedì 10 novembre 2015

San Suu Kyi






Penso a San Suu Kyi, al suo trionfo in Myanmar dopo decenni di patimenti inanellati. Mi piace il suo trionfo sottotono, la modesta e intransigente fermezza con la quale sempre ha lottato contro orchi, giganti e generali. Una vita spesa per un paese che la amava, con una testa però che la perseguitava. Il cambiamento adesso fiorisce, ma credo che lei, in questi anni, il dna della antica Birmania lo abbia già rivoluzionato. Passo dopo passo, giorni, mesi, anni e leggende di forza quieta si sono insinuati nelle persone che ora l'hanno votata e chiesta come guida. Una rivoluzione quotidiana potente e sottile. La prigionia nelle sue varie forme, la separazione dal marito, il coraggio dignitoso, il Nobel come piccolo scudo. Sarà felice, adesso? Il prezzo da pagare, a conti fatti, sarà stato equo? O troppo alto, arrivando in cima e guardando in giù al tempo della vita passata? Sta riflettendo che ne è valsa la pena? O sarà spaventata della nuova prova? Che salita impervia e interminabile per questa donna. Essere emblema speranza futuro quanto pesa quando mangi il tuo riso, ti sdrai sul letto o accendi il primo pensiero della mattina? La guardo in TV, sorriso stretto e corpo essenziale. Lo sa bene che le battaglie non sono finite, non c'è riposo. Ce la farà a espugnare il nocciolo dopo averlo conquistato più volte? Coraggio. Ancora una volta.

domenica 8 novembre 2015

Domenica d'arance


Mia madre adora la marmellata di arance. Ne fa un consumo smodato. Ma non quella comprata. No, no deve essere fatta in casa. Da me, ovviamente, lunica con il gene della cucina. L'accumulo dello scorso anno non è stato sufficiente a coprire il fabbisogno di colazioni per 12 mesi. E sono state lamentele... Quindi, appena sugli alberi di Capalbio le prime arance hanno cominciato ad arrossire, mi sono affrettata a raccogliere e ho cominciato ad ammassar barattoli. Domenica ne ho sfornati 18, per un totale di 4 kg di arance. 
Sembra niente, ma la preparazione è laboriosa assai. E pure lunghetta. 
Infatti vanno prima tagliate le arance fine fine e tolti tutti i semi. Poi se ne stanno a bagno in acqua 24 ore. Un litro per ogni chilo, per la precisione. 



La fase due prevede cottura a bollore con stecca di vaniglia e/o cannella per mezz'ora, ripesatura della poltiglia trasparente e aggiunta di altrettanto zucchero. Cuoce ancora 45 minuti durante i quali la marmellata va accarezzata, blandita, sminuzzata. Marmellatizzata, in poche parole. Alla fine, via caldissima nei barattoli che vanno tenuti a testa in giù finché non si fredda il tutto. 
Perfino la gatta si è non dico interessata, ma incuriosita... 


La maestà della Fontana



La senti avvicinarsi prima dalla voce. Chiacchiera, chiacchiera instancabile dietro l'angolo. Vedi prima gli ammiratori, a grappoli, poi lei. Fontana di Trevi restaurata. Un bagliore di bellezza. Sono stata a visitarla due volte questa settimana. 



Prima di sera, poi di mattina presto quando la corolla di turisti non è ancora così fitta. Non si può non soccombere al fascino. Che è misto di suono e sguardo. Il rumore dell'acqua è parte integrante dell'opera, mi pare. Così come le monetine sul fondo, sintesi di speranze desiderate in lungo e in largo per il mondo. 


Fontana di Trevi non è mai sola. Notte e giorno la circondano di selfie, paccottiglie, vendite sguaiate. Però, devo dire, lei non si scompone e non si scalfisce. Scroscia maestosa e cortese, adesso in un bianco puro circondato di azzurro trasparente. Si fa un baffo pure dei turisti che la scorrono a passo di jogging e guardano e passano, in un lampo tutto salute. Pazienza per Bernini e il suo barocco, ma qualcuno saprà almeno di Dolce vita? Di Anita e del suo bagno? 


Non importa, però. Vederla così bella fa bene comunque. Storia è passato potranno rimanere anche oscuri nei dettagli, ma parlano così chiaro agli occhi che va bene anche così. 





lunedì 2 novembre 2015

Che festa sia



Viviana ce lo aveva detto qualche settimana fa, ancora un po' incerta, di questa sua idea di festeggiare i 60 anni in grande stile. Preoccupata per il tempo, novembre può essere noioso assai, la fatica, lo sfolgorio. Però, in fondo si capiva che la decisione era presa: che festa sia. Perciò, eccoci qui in una domenica luminosa, in grande spolvero, intorno a lei. La conosco da poco, io, Viviana. La mia assiduità  capalbiese, d'altra parte, é pure assai recente. Il bandolo della matassa, però, è che qui sono stata accolta presto. E bene. E il calore qui te lo fanno sentire tutto subito. Ok, divago. Torno alla festa di compleanno. 




Gli occhi del giorno dopo hanno davanti interminabili prelibatezze inanellate. Uscivano da quella cucina come se non dovessero finire mai. Una specie di danza dell'abbondanza.  Il famoso 'ogni ben di dio' rende a malapena l'idea. L'impressione è di assistere a un rito collettivo, nel quale ognuno ha messo il suo. Ogni cibo ha il suo cartellino di riconoscimento. Le polpettine famose di Viviana, la torta al cioccolato che si scioglie magicamente appena in bocca, le molisanità di Mimmo, gli uomini intenti a cucinare la rosticciana, avvolti in nuvole di fumo saporito. 



La convivialità è spontanea. La cornice, d'altronde, invoglia. Tutti sorridono a tutti. I complimenti piovono agevoli. Atmosfera senza sabbia negli ingranaggi. Qualche lacrima scappa impertinente, tra la musica dei nostri anni d'oro suonata live da una band affiatata, irresistibilmente ironica e la presentazione dei regali. Sono i Krognola, laddove la crognola in capalbiese significa sbronza. Un nome, una garanzia... Insomma, si fa presto a mescolare le carte e a piangere dal ridere. 


Tutti allegri e contenti. Non lo so chi ha messo a posto dopo. Mi viene in mente soltanto adesso... 



La raccolta delle olive



Da sempre ho desiderato partecipare  a una raccolta delle olive, ma, chissà com'è, i casi della vita mi ci avevano sempre tenuto lontana. Invece ecco la perfetta domenica capalbiese a regalarmi lo sfizio. Sui 400 ulivi di Claudio e Linda, in una mattinata ne abbiamo liberati solo tre, ma che soddisfazione! La giornata meravigliosa, cielo blu senza compromessi e sole netto. Le olive vengono giù sulla rete a grappoli, ramo dopo ramo, rotolano in tutti i colori, dal verde acido al nero e formano rivoli.
 


È sorprendente vedere certi piccoletti con quattro rametti striminziti sfoderare olive panciute e tronfie. Quasi da tagliare a fette. Le pulci hanno la tosse, direbbe mia nonna. 





Bello il lavoro di squadra, fondamentale nei lavori di campagna. Insieme si stendono le reti, si snocciolano gli alberi, ci si aiuta con i rami più alti, con i frutti dispettosi che si nascondono dietro le foglie e ridono dei raccoglitori della domenica. E poi l'entusiasmo di riordinare il raccolto nelle cassette. Le olive, diciamolo, sono bellissime. A vedersi come da mangiare. 
Dá gusto portarle al frantoio, in piena attività h24 nelle giornate decisive. I passaggi della metamorfosi sono tutti a vista. Il profumo dell'olio nuovo satura aria e papille. Pare di sentirlo già sulla bruschetta, ancora verde verde e pizzicante. Diventerà giallo più avanti nel suo cammino, perderà asprezza e acquisterà corpo pieno. Per me, però, il suo momento di gloria è questo dell'infanzia.