giovedì 29 dicembre 2016

Santa Lucia di Svezia




Con estremo ritardo e una lunga assenza dalla scrittura, mi accingo a raccontare del 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, come sanno più o meno tutti. Sono stata alla celebrazione dell'ambasciata di Svezia, ospite d'onore la principessa Victoria, un passato tra anoressia e bulimia, adesso in apparente splendido equilibrio tra poco e troppo. L'ambasciata è proprio dietro casa mia, un villino primo Novecento, con un bel giardino appropriato, alle spalle di via Nomentana. C'è la fila per entrare, una presenza regale richiede ovviamente controlli più accurati. Ma l'atmosfera è serena. Nonostante il mio accompagnatore Massimo (per la verità ero io che accompagnavo lui, ma non sottilizziamo) avesse dimenticato invito e documenti e dunque avrebbe meritato una ferma espulsione, siamo stati accolti (forse) in virtù del suo svedese, che alle mie orecchie profane è apparso fluente. Perché poi uno, italiano al cento per cento, debba sapere bene lo svedese è mistero ancora fitto. Ma questa è un'altra storia, vero Max? 
La festa si svolge -nemmeno a dirlo- al piano nobile. I lunghi buffet sono allestiti con i piatti nazionali svedesi: aringhe, salmone, una strana insalata di certo con barbabietole rosse, le mitiche polpette (ma non quelle di Ikea). 


Ma il cibo è subito messo in disparte per il discorso della Principessa. Che, in inglese, allaccia fili tra Italia e Svezia, stabilisce parentele storiche, affinità culturali, passioni turistiche, andando a scavare anche fino in fondo al Medioevo, perché insomma, tutto sommato, il gemellaggio non viene proprio spontaneo al primo pensiero. Comunque benvenuta la salutare brevità nordica. 



La Festa di Santa Lucia non è fatta di parole, ma di canti. Quindi, i protagonisti sono questi giovani, tutti sicuramente ben sotto i venti anni, vestiti con tuniche bianche e con copricapi appesantiti da candele accese. Suppongo che ci sia un sistema per evitare che la cera si sciolga in testa e le candele restino ferme al loro posto. In ogni caso, i ragazzi sono apparsi dalla cima della scalinata, appaiati e hanno intonati le musiche di Natale e gli onori a Santa Lucia. Omaggio all'Italia una versione singolare -per modo e luogo- della canzone napoletana Santa Lucia (chissà se è il vero nome, è quella “venite all'agile, barchetta mia”, per capirsi) che “stonava” un po' nel contesto. Ma insomma, è stato un pensiero carino.




Mentre gli invitati si aggiravano si è formata una fila per salutare la principessa, ma lei, mi pare di aver capito, ha ricevuto solo gli amici. Però in pubblico, in un angolo del salotto, protetta soltanto da un tavolo basso e una guardia del corpo. In sostanza, udito blindato, occhi in libertà. Decisamente una concezione moderna della monarchia. 
Per finire non poteva mancare il vino speziato caldo. Per farci sentire un po' a Nord lo hanno servito in giardino. Così, almeno, ha avuto un senso oltre la tradizione, anche nel clima romano. 


venerdì 2 dicembre 2016

Sogni con le gambe




E così è andata a finire che il sogno cammina sulle sue gambe. Ricordo ancora quando ha fatto i primi indistinti movimenti uscendo dal buio di un'aula di liceo. Per la prima volta Flaminia ha considerato l'idea di studiare psicologia, aveva 17 anni più o meno. Poi l'embrione si è sviluppato, ha cambiato un po' i suoi connotati, si è irrobustito sulla possibilità della criminologia. Forse una infatuazione passeggera dovuta alla gran moda di serie TV e compagnia bella. L'abbiamo pensato tutti. Invece, l'idea è diventata università. A Lancaster Flaminia si è trasferita, sfidando un clima francamente bestiale dove buio, freddo, vento tagliente, pioggia piangente sostituita a tratti da nebbia umida, sono ingredienti di quasi ogni giornata dell'anno. E poi, il college lontano da tutto, senza conoscere nessuno. E' partita da sola e la sua faccetta quando il padre ed io abbiamo ripreso il treno per tornare in Italia, ce l'ho sul telefono ma soprattutto nel cuore. Insomma, anni non facili.


Lancaster non è Londra, non salti su un aereo se hai bisogno estremo di un abbraccio o di un piatto di fettuccine al cinghiale. Devi affrontare un percorso misto bus/treno/aereo con orari imposti da compagnie monopoliste e quindi punitive in ognuno di questi settori. Però Flaminia non si è mai scomposta oltremisura. Non è stato facile, tutto quel buio può infiltrarsi anche nell'anima e provaci a camminare a luce spenta. Insomma, però, è arrivato anche il giorno di toga e tocco. Era luglio, il 14 per la precisione. Del 2015. Abbiamo preso la Bastiglia, e abbiamo patito un freddo cane pure a metà estate. 




Dunque, poi, con la sua doppia laurea in psicologia e criminologia con tesi su argomenti terrificanti se trattati fuori dalle popolari serie TV, Flaminia si è avviata verso Londra. Questo sogno stava acquistando la consistenza della realtà, sebbene ancora piuttosto debole per via delle incognite che sempre sono in agguato nella vita. Il clima di Londra è decisamente più malleabile del terribile Nord e il peso del cielo si è alleviato. Il master in Scienze forensi è durato un anno avvolto nello studio, l'occhio sempre puntato al sogno. Così puntato che Flaminia ha anche tentato di farmi passare la nostra unica settimana di vacanza insieme a fare ricerche di dna e simili nelle fosse comuni in Bosnia. Bocciata con la fermezza di tutto l'amore di mamma. 
Alla fine, laurea e master in saccoccia, guarda come fanno in Inghilterra. L'obiettivo,  sveliamolo va, è diventare detective nella polizia inglese. Una italiana? Dopo Brexit? Assai improbabile, no? Però, andando di luoghi comuni, tentar non nuoce. Tanto, pensa che Paese strano, l'application, anche detta bando di concorso, appare sul sito e chiunque può partecipare. I test sono tutti online. Si fa il primo e dopo un paio d'ore -sì, proprio un paio d'ore- arriva il risultato via email. Vale anche per il secondo e il terzo step. Come nelle favole vieni giudicato per il merito, senza interventi umani. Senza che lo zio, il cugino, l'amico del condomino, o qualunque altra tipologia di raccomandazione influiscano sulla performance. Il quarto gradino è l'ultimo e qui invece entra in gioco il fattore umano. Si passa una giornata intera ad essere esaminati da differenti squadre in stanze differenti, sono test che coinvolgono tutta la personalità, il modo di interagire. Anche qui, vieni esaminato come persona non solo per cognome, conoscenze, scollature o equivalenti. E, udite udite, nonostante il fatto che ci siano persone che devono esprimere pareri e giudizi, il responso arriva dopo quattro giorni (di cui due di week end). Flaminia ha ricevuto una telefonata che le ha comunicato che era stata accettata. Solo dopo qualche ora è arrivata anche la mail, con tanto di data di inizio del lavoro e offerta economica. Tra l'altro, lo stipendio le permetterà di vivere!!!! Ecco, per dire, che ci sono posti dove, se lavori duramente, nessuno si mette in mezzo tra te e i tuoi sogni. Anche se sei giovane e non raccomandato. 





sabato 26 novembre 2016

A Santa Prisca edizione speciale della Festa dei poveri



Sono stata di nuovo stamattina ad aiutare per la Festa dei poveri di Santa Prisca. Occasione speciale, oggi, si festeggiavano i sessanta anni di sacerdozio di don Antonio, che non dimostra la robusta età di 84 (alcuni dicono 85) anni e che si é aggirato per i tavoli, scherzando e chiacchierando con tutti i commensali. In via del tutto eccezionale sono venuti pure due ragazzi giovani che hanno cantato per tutto il pranzo. Certo, il tutto era un po' arrangiato e così la musica non è arrivata proprio dappertutto. 


Molto diversa l'atmosfera dalla prima volta. Intanto, più persone. Tutti i tavoli erano pieni, continuava ad arrivare gente e la pasta è finita prima di poterla dare a tutti. In compenso würstel (di pollo in rispetto ai musulmani) e fagioli a volontà. Tanto che molti sono andati via con un paio di salsicce nella Rosetta, magari per cena. Abbiamo anche avuto  una “recensione” negativa da parte di una specie di colosso proveniente di sicuro da un paese dell'est, che, andando via, ha cominciato a gridare che il pranzo faceva schifo, nell'aria (non nel cibo) c'erano le mosche e le donne che stavano lavorando li (cioè noi) erano tutte puttane. Vabbè, speriamo che non lo metta su TripAdivisor... Ma di persone un po' sgradevoli, oggi, ce n'era più d'una. Un gruppo di uomini arabi, per esempio, molto aggressivi e sprezzanti. “Lei, signora, è magra, si conservi così, mangi poco e porti altro cibo”, ha detto uno di loro alla persona che serviva il suo tavolo. Insomma, eccezioni più numerose. Poi però c'era un giovane molto ben vestito e pulito, educato e sorridente. Si chiama George, viene da Filadelfia (Usa)  e dopo aver lavorato per un periodo in California, è venuto in Italia per studiare filosofia e teologia. Certo, se è finito al pranzo dei poveri non se la deve passare molto bene come studente... Per la prima volta (per me) sono venuti anche bambini. Un paio di ragazzini sui dieci anni con mamma e papà e una piccolissima di poco più di un anno, peruviana. “Lei è Anna, è nata a Roma”, mi ha detto orgoglioso il papà in un italiano non proprio fluente. E ha proseguito: “noi parliamo poco la vostra lingua, ma ad Anna cerchiamo di parlare in italiano. Vogliamo che sia italiana”. E avoglia  a cercare di spiegare l'importanza dello spagnolo nel mondo rispetto all'italiano, non c'è stato verso. Italiano deve essere. E italiano sia, allora. 
Dopo pranzo parecchi sono andati via subito. Una donna invece mi ha colpito. Accento del nord, mi ha guardato e mi ha detto: “però è anche bello restare un pochino seduti in questo giardino bellissimo a godersi il sole”. Perché poi, alla fine, c'è pure un cibo dell'anima. 




giovedì 24 novembre 2016

Il paradiso degli altri



Qualche sera fa sono stata alla proiezione romana del documentario "Il Paradiso degli altri", tutto girato a Pantelleria e nato dall'incontro culturale tra Anna Silvia e Nicola Ferrari. Anna e Nicola sono sposati da un po' di anni e tra loro la scintilla si è fatta idee e progetti. Conosco Anna da qualche mese, lavoriamo insieme ogni giorno, mentre Nicola l'ho solo incrociato di sfuggita qualche rara volta. 


Lei ha eleganza, spirito e un serissimo ruolo, lui fa regia, va controcorrente e se ne rileva a prima vista l'insofferenza acuta. I due in apparenza non potrebbero essere più diversi, eppure questo documentario dimostra che la complementarietà esiste eccome. 
“È una storia di protesta”, lo presenta lui. Lei lo dedica al papà scomparso da poco. Davanti alla sala piena si emozionano entrambi. Luci abbassate, la storia inizia e cominciano ad intrecciarsi le vite degli  otto protagonisti che hanno scelto Pantelleria come posto in cui vivere.



Anna, Claudia, Helena, Maria, Karin, Gigi, Peter, Sebastiano appartengono a generazioni diverse e a diverse storie di provenienza. Ma tutti hanno detto basta alla routine grigia e si sono tuffati con temeraria consapevolezza in un futuro lontano da obblighi imposti da convenzioni altre. Obbiettivo: una vita a misura personale. Non è una rivoluzione, ma una scelta caparbia e assaporata ogni giorno, magari anche con bocconi aspri, ma mai amari. La frase che Seneca rivolge a Lucilio "Nulla ci appartiene, solo il tempo è nostro", che precede le prime immagini del film, sintetizza la scelta.
“Il Paradiso, che nella sua radice etimologica indica il giardino, un luogo per eletti a cui non tutti possono accedere, accoglie chi cerca una qualità del tempo in sintonia con la propria vita, i propri ritmi, in base alle priorità di una scala di valori costruita autonomamente -spiegano Anna e Nicola- I protagonisti di questo lavoro non vivono l'Isola come un "buon retiro".



 A Pantelleria, lavorano, creano, producono, coltivano, svolgono attività commerciali, ma la differenza è nella gestione del tempo, nella possibilità di dedicarsi a tutto quello che "merita" secondo il loro personale giudizio, che può essere sedersi ogni giorno a tavola con la propria famiglia, dedicarsi alla coltivazione dello zibibbo, o immergersi in una mattina invernale nelle acque calde del lago "Lo specchio di Venere", prima di iniziare la giornata”.
Il racconto scorre lento, ma a paradossalmente veloce. A me è piaciuta assai Maria, ultra ottantenne indomita e consapevole del valore del tempo minimo che le resta da consumare e decisa a farne gioiello. Ironica e talvolta un po' nostalgica si arrende solo ai limiti della natura. I personaggi appaiono e scompaiono, non si vedono negozi, o attività commerciali. Pantelleria risplende nel suo carattere invernale, fatto di vento teso, cieli ingarbugliati e mare energico. Ognuno dei personaggi mostra la sua personale versione di Pantelleria. Ovvero del paradiso. 


A fine proiezione, Anna e Nicola hanno pensato di rinforzare l'immagine dell'isola con qualche sapore importato: vini dal gusto davvero unico, crostini imbanditi con i prodotti delle terra. A dimostrare che  Pantelleria non è solo estate e mare, ma anche terra e vita quotidiana. 

domenica 20 novembre 2016

Shopping, what else?



Un week end a Londra in compagnia della figlia prevede inesorabilmente una lunga sessione di shopping, anche in considerazione della debolezza accogliente della sterlina. Bisogna prima di tutto osservare che gli allestimenti sono fastosi. Non tanto gli addobbi pre natalizi delle strade che sono belli, ma insomma, non stupefacenti (almeno quelli che ho incontrato io). Piuttosto parecchi negozi hanno arredamenti temporanei o permanenti davvero interessanti. Splendido, per esempio, questo giardino verticale interno alto più di dieci metri. E che dire del pianista dei fiori? 



In generale l'attenzione al piacere dell'occhio non fallisce. Mi dichiaro invece apertamente meno entusiasta della qualità. È anche vero che abbiamo battuto un'area simile a via del Corso e dunque, che aspettarsi? Però la quantità di abiti e accessori a tutto tondo di orrenda fabbricazione  che ho visto, tastato, scartato è stata defatigante per occhi, tatto e spirito. Molto meglio è andata quindi per la carta di credito. Mi sono difesa strenuamente dagli attacchi di abitucci sintetici, impossibili paillettes e capini malamente assemblati, vietando anche senza mezzi termini a Flaminia di soccombere al loro a me invisibile fascino. In compenso, mi sono innamorata di una splendida  borsa che avrei voluto a tutti i costi far trasferire in Italia e che tuttavia ho abbandonato al suo destino isolano visto il sussiegoso costo di 880 pound. Vabbè, bella ma proprio non ballava.


Molto divertente invece il raid nel supermercato giapponese: due piani di prodotti Made in Japan, ogni bendidio  che un giapponese all'estero può desiderare: dalle ciotole al tè, da vegetali undentified a chilometri di sushi e sashimi di ogni combinazione di colori e ingredienti. Certo, c'è il piccolo dettaglio che il pubblico é comunque ristretto al Sol Levante perché non c'è uno straccio di traduzione di un diavolo di niente. Quindi, per alcuni prodotti è anche difficile individuare l'uso: le foto sgargianti non sempre aiutano un granché e quindi finisce che, rigirata da ogni lato la confezione, ci si rassegna a lasciarla lì. Un mondo a parte, insomma. Assai impenetrabile.



Comunque,  ci siamo divertite anche in mezzo al brulicare esasperato dello shopping di un sabato non troppo lontano da Natale, con una bella giornata di sole nemmeno troppo gelida. 

sabato 19 novembre 2016

Duck and waffle



Duck and waffle merita un piccolo omaggio a parte. Intanto perché la cucina è aperta fino oltre le 11 pM e a Londra non è una cosa banale. E poi -diciamo soprattutto, suvvia- perché volteggia al quarantesimo piano della Heron tower e posso assicurare che le foto non rendono minimamente giustizia alla bellezza. Già salire è una emozione. 


L'ascensore vola verso l'alto e dalle pareti trasparenti Londra supera la barriera dei palazzi e si scopre a perdita d'occhio: milioni di luci brillano nella notte e un po' sembra di essere Peter Pan e di aver lasciato a terra anche la propria ombra. Salire toglie il respiro. Letteralmente. Va da sè che  il posto è super trendy, dunque affollatissimo e rumorosissimo. Buio parecchio, anche, per non dar fastidio al panorama.  A noi è capitato un tavolo bellissimo, proprio attaccato al cristallo e le vertigini soccombono all'emozione. 



Si mangia perfino bene, con una bella cucina a vista dove una decina di cuochi e sottocuochi sfrecciano e sfidano la collisione al secondo. In effetti il servizio è rapido e il cibo ottimo. Un benvenuto spettacolare, per me. 

Arrugginita



Non viaggiavo da un po'. Anzi da parecchio. Anzi da troppo tempo. Così anche un voletto a Londra per visitare Flaminia ha assunto contorni quasi avventurosi. Prima novità ho scaricato Uber e mi sono fatta accompagnare a Fiumicino. Però, visto che ero una neofita, credevo di poter impostare l'orario in cui farmi venire a prendere e invece quello é partito appena l'ho chiamato. Quindi, già io mi muovo con ridicolo anticipo, in questo caso mi sono trovata a partire a un orario insensato. Comunque mi sono trovata benissimo. È arrivato Antonio con un bel Mercedes nuovissimo, ovviamente pulitissimo, temperatura interna perfetta, appena vedeva un piccolo grumo di traffico rimodulava il percorso. Insomma, ottima esperienza, a parte il fatto che sono arrivata in aeroporto davvero in larghissimo anticipo. Evito di quantificare per non espormi a inevitabili -e giustificati- motti e dileggi. Andiamo avanti. A tempo debito è finalmente arrivata l'ora dell'imbarco. Si è formata una ordinata fila davanti al desk, dove era ovviamente indicato il volo, quando la hostess, senza alcun motivo apparente, ha gridato: “per Londra qui”. Non l'avesse mai fatto. È stato come suonare una carica, incitare all'arrembaggio. La fila ha perso forma per diventare una mappazza frenetica accalcata al gate, con passaporti sbandierati manco fossero segni del comando. Le persone spingevano come non si fa più nemmeno allo stadio. Una situazione assurda. Per fortuna io ero all'inizio e mi sono risparmiata gran parte del parapiglia. Saliti a bordo, non so perché si sono create isole con clima da gita scolastica, altri protestavano per la difficoltà di incastrare nella cappelliera bagagli a forma di contrabbasso o enormi valigie con oltre un metro quadro di stazza. Insomma, tutti i connotati di un charter, più che un low cost. Inclusa una sorta di overbooking con gente ancorata a sedili qualsiasi e incurante delle coordinate della sua carta di imbarco. Io poi sono capitata nella fila dell'uscita di emergenza per cui sono stata bruscamente privata di ogni effetto personale, libro incluso, fino a decollo inoltrato. A parte che il libro, ho scoperto poi con raccapriccio, l'ho proprio perso chissà dove, l'arrivo a Gatwick ha comportato una interminabile fila per comprare il biglietto del treno (due casse aperte su almeno otto) e treno medesimo con 20 minuti di ritardo. Vabbè. Dice che gli inglesi sono tanto puntuali e precisi nei servizi, ma io ogni volta che vado mi scontro con ritardi e corse soppresse che se fossi in Italia darebbero la stura altroche a invettive. In conclusione, però, Londra ti ripaga con la sua bellezza e vedere Flaminia venirmi incontro sorridente mi ha fatto superare anche lo shock di passare dai 20 gradi di Roma ai 2 locali... 

martedì 25 ottobre 2016

La Festa dei poveri di Santa Prisca




La giornata strepitosa, una ottobrata romana con tutti i sentimenti. Il chiostro di Santa Prisca l'ho già presentato in varie occasioni e stampato sul cielo blu faceva proprio un bell'effetto. Stavolta l'appuntamento era per offrire il pranzo a chi un pasto se lo può permettere difficilmente e spesso in via fortunosa. Italiani poveri, migranti da ogni dove, uomini e donne, giovani e anziani. Homeless con il loro bagaglio ancorato sulla schiena o trascinato su ruote barcollanti. Ma anche persone con lo sguardo timido e vago dell'imbarazzo oppure reso quasi provocatorio da una irriverente autoironia della condizione. Sono a occhio più uomini che donne, i primi di tutte le età, le seconde mediamente oltre i cinquanta. Oltre un centinaio, tra una fila e un ritardo, per la Festa dei poveri, il primo sabato dei sette programmati (12 e 16 novembre, 17 dicembre, 21 gennaio, 18 febbraio, 11 marzo, 1 aprile) per un piccolo ristoro lungo tutto l'inverno, organizzato con lunga tradizione dalla parrocchia di Santa Prisca. 


Insomma, domenica 23 ottobre sono andata anche io a dare una mano. Sono arrivata verso le 10 e c'erano tavole e sedie da montare e spazzolare perché vivono in un gabbiotto chiuso in teoria, ma che lascia spazio alle intemperie. Il numero degli ospiti a pranzo può variare da cento a duecento, quindi, meglio prevenire la possibilità che qualcuno resti in piedi e abbondare con i posti a tavola. “Mai nessuno se ne è andato da qui senza aver avuto qualcosa da mangiare”, specifica don Antonio Lombardi, pietra angolare della parrocchia e prossimo al 60^ anno di sacerdozio. 
Secondo step è vestire i tavoli: tovaglie di carta, posate e bicchieri di plastica in confezioni chiuse. I volontari, in quanto tali, lavorano di buona lena e in cooperazione. Uno stende la tovaglia, l'altro la taglia a misura e la rimbocca in modo che il vento non se la porti. Uno pulisce le sedie, l'altro le dispone intorno ai tavoli. Il clima è sorridente e socievole. In un angolo si cucina. Vietato fotografare, per ragioni imperscrutabili. Ma mi attengo. I pentoloni, comunque, sono pieni di penne al sugo e a seguire le teglie di polpettone e verdure miste dall'aspetto fin troppo sano per i miei gusti. Maiale non se ne serve, per via del rispetto islamico, e molti tra gli ospiti lo chiederanno con attenzione. 
Prima delle 12, quando si aprono le porte del chiostro e comincia la fila spicciolata dei commensali, gli organizzatori e i veterani istruiscono le reclute. 


L'organizzazione è rodata e i volontari si dividono tra rigoristi e scialli. I primi non vorrebbero una deroga nemmeno a costo di peggiorare la qualità del servizio, gli altri abbondano in eccezioni e creatività. Inutile dire a chi mi sono spiritualmente unita io... Comunque, mi rendo conto che senza un po' di regole il caos regnerebbe sovrano. In sintesi, però, direi che ciascuno porta le sue braccia e il suo spirito. Ci sono un paio di maestri di cerimonia, che assegnano i tavoli ai volontari in modo che ciascuno abbia una sua zona di responsabilità. Anche perché gli ospiti hanno un po' la sindrome da accaparramento, sebbene, nella maggior parte dei casi, trasparente  e scherzosa. Per questo, ho scoperto, le bottiglie delle bibite vanno messe sui tavoli senza il tappo, altrimenti finiscono con un unico fluido movimento negli zaini più vicini. Quando la Festa comincia, i primi entrano a passo svelto e localizzano con esperienza i posti migliori, all'ombra e non troppo lontani -ma nemmeno a ridosso- del buffet. Si creano gruppi omogenei per lingua o per età o sesso. A me, che viaggiavo in tandem con la mia amica Letizia, è capitato un tavolo di uomini dell'est abbastanza allegri, un tavolo di mugugnatori e un tavolo 'misto'. Funziona che i volontari si mettono in fila davanti al buffet portando i vassoi con i piatti. Arrivati ai pentoloni, i piatti vengono riempiti e si portano ai tavoli. Gli ospiti sono molto contenti di collaborare e prendono i piatti passandoli l'un l'altro con grande cortesia e allegria. Qualcuno magari, in modo sottile mente surreale, critica la qualità del cibo (pasta scotta, manca sale, posso avere dell'olio extra), molti non rifiutano il bis, ma non pochi invece evitano lo strafogo e bilanciano secondo gusto: meno carne più verdure o viceversa, solo proteine o meglio carboidrati. 
Tra i volontari e i commensali quasi sempre si scherza. C'è stato un uomo di mezza età, che facendo una garbata corte a una volontaria e le ha chiesto di che segno fosse. “Toro”, ha risposto lei. Al piatto successivo, lui sorridendo: “sono sempre andato d'accordo con le donne Toro...”. Insomma, c'è anche da farsi una risata. 
A fine pranzo, c'è stato chi è venuto a chiedere gli avanzi. Alcuni addirittura con i loro bravi contenitori di plastica. Nessuno ha preteso spropositi, nessuno ha sgomitato per avere di più, zero insistenza. Andando via, la maggior parte ha salutato e ringraziato. Alla porta, ciascuno ha trovato un dolce, una frutta e il caffè. Si servono sull'uscio per incentivare l'esodo. Congedato l'ultimo ospite, si ripete la trafila allo verso: sparecchiare, impilare le sedie, smontare i tavoli. 
La prossima volta, dice chi ha esperienza, verranno più persone, il passaparola si mette in moto e il freddo fa il resto. 




martedì 4 ottobre 2016

Quirinale story

U



Full immersion quirinalizia, lunedì 26 settembre. Scrivo solo ora solo parzialmente per pigrizia, per il resto  molte cose si sono accavallate e hanno ritardato il procedimento. Per forza di età e provenienza culturale, già un po' masticavo, ma ora so (quasi) tutto sulla storia dei presidenti, le loro personalità, pregi e difetti, innovazioni e resistenze di ogni mandato. Il seminario all'Archivio storico della Presidenza della Repubblica, mi ha permesso di mettere il naso e posare gli occhi su una parte del primo Palazzo italiano che non avevo mai visto, palazzo Sant'Andrea, proprio di fronte all'ingresso Giardini del Quirinale e accanto al piccolo parco che ospita la statua di Carlo Alberto a cavallo qualche albero e verdura varia.


 L'archivio cova, come ci si può immaginare senza proprio sforzarsi, foto d'epoca e documenti preziosi, tutti in avanzata via di digitalizzazione come ci ha raccontato Marina Giannetto, sovrintendente dell'Archivio storico della Presidenza della Repubblica. L'Archivio storico, ci racconta, nasce nel 1996 e viene costantemente aggiornato. Qui c'è la storia della Presidenza della Repubblica, dai documenti del segretariato generale a quelli dell'ufficio stampa al cerimoniale, ovvero l'agenda italiana ed estera del Capo dello Stato da Einaudi a oggi. Si possono visualizzare le giornate dei vari presidenti e tutti i documenti collegati, ricavandone informazioni (e pettegolezzi) non banali in forma di diario che da cronaca si fa storia, dal 1870, e corredato da 900mila immagini digitali e tradizionali ora in corso di digitalizzazione. Il tutto occupa ben 8 km di scaffali. Niente male per 11 Presidenti della Repubblica, ognuno dei quali con la sua personalità, il suo bagaglio di vita e il contesto, ha impresso il segno nel Paese e lo stile al Palazzo. 


Di questo ci ha raccontato Guido Melis, ordinario di storia delle istituzioni politiche e di storia dell'amministrazione pubblica alla Sapienza. Che ha fatto notare come, sebbene in Costituzione ci siano 9 articoli dedicati specificamente al Presidente della Repubblica, le sue prerogative poi sono sparse in altri punti e la discrezionalità si fa piuttosto ampia. Così, parlando in generale, è chiaro che il ruolo del Capo dello Stato si fa più incisivo e visibile in periodi di crisi, quando i partiti sono indeboliti e con la reputazione stanca. Conta anche il carattere, come è ovvio. Così, faccio un esempio, Saragat cominciò a indicare in quale ambito i presidenti del coniglio incaricati dovessero cercare la loro maggioranza, Pertini usò la comunicazione in modo anomalo, utilizzò moltissimo i messaggi alle Camere e prese l'abitudine di mettere voce sulla lista dei ministri, attingendo al potere di veto fino ad allora inutilizzato. Da Scalfaro in poi, il Presidenre  della Repubblica aumenta di incidenza politica e visibilità. La fase notarile sbiadisce in favore di una presenza più attiva anche nelle questioni che incidono sulla vita dei cittadini, così come aumenta il lavoro dietro le quinte che fanno i presidenti e i loro segretari generali, vere e proprie eminenze grigie della storia repubblicana con il loro fittissimo reticolo di relazioni, le frequentazioni di cene e salotti, la vigilanza sulla comunicazione istituzionale e non, il ruolo che riunisce, in un certo senso, sparring partner, confessore, cuscinetto e all'occorrenza pure parafulmine (Vedi alla voce Pertini-Ghirelli, per dire). 



Sul ruolo più “pesante” del Capo dello stato nei momenti di crisi la pensa nello stesso modo Vincenzo Lippolis, ordinario di Diritto costituzionale italiano e comparato e volto ben noto a tutti i frequentatori di Transatlantico di qualche esperienza. La difficoltà del cosiddetto potere neutro sta proprio nel prendere decisioni dirimenti  non per far prevalere una o altra parte ma per assicurare gli interessi permanenti della nazione. Una posizione che richiede lungimiranza ed equilibrio e che non sempre è facile individuare, diciamo. 
La personalità dei Presidente si è mostrata anche nella politica estera. E anche qui, con l'andare del tempo, il Capo dello Stato si è ritagliato un ruolo più importante. Ci sono stati presidenti naturalmente viaggiatori e presidenti sedentari. Certo, con il velocizzarsi dei trasporti l'inclinazione a visitare altri paesi si è fatta più forte e gli ultimi inquilini del Quirinale si sono mossi molto di più dei primi, sebbene per meno tempo medio. Ma d'altra parte questo è quello che accade un po' a tutti perché così va il mondo. Ho tra l'altro finalmente ben chiarito la differenza tra visita di Stato e visita ufficiale. La prima è solo del presidente della repubblica e si organizza con il contagocce. Per l'altra si usa invece la manica larga, la fa anche il presidente del Consiglio , per dire, e il protocollo e decisamene meno rigido.  
Discorso a parte, quello dell'immagine del Presidente, della presenza del Quirinale sui social, del sito dedicato alla istituzione e al suo attuale capo. In effetti, per tutta la giornata di Sergio Mattarella non si è quasi parlato. Ma Giovanni Grasso, suo Consigliere per la stampa, non si è proprio potuto esimere dal parlare sui cosiddetti "giorni nostri”. Così abbiamo guardato il sito del Quirinale, diviso nella parte blu dedicata al Presidente (blu perché è il colore della Repubblica, non lo sapevo, ammetto) e bordò per il Palazzo. E poi i social, Twitter e Instagram soprattutto. Io amo molto Instagram, anche se riconosco il ruolo di Twitter. Su Instagram c'è un po' di ufficialità, ma anche quel lato poco interessato dai fotografi della cronaca, i piccoli interludi di Mattarella con i cittadini, le cerimonie "minori", la vita quotidiana del presiddente, insomma. E no, niente Facebook per il Quirinale. Una scelta a tutela dei cittadini vista la propensione degli italiani a usare linguaggi rudi. Che se rivolti al Capo dello stato prefigurano il reato di vilipendio. “Di insulti non ne arrivano molti, ma la nostra filosofia é lasciar correre”.
Al Quirinale usano ogni social. “Così tutte le informazioni sono per tutti, senza discriminazioni”, sintetizza Grasso. Il discorso vale anche per YouTube, che è stato assai arricchito rispetto al passato. Il discorso di Capodanno, per fare un esempio,  è stato seguito da oltre 46mila persone, un dato molto interessante perché chi lo ha aperto lo ha proprio guardato tutto. 

martedì 27 settembre 2016

Noorjehan che sconfigge l'HIV



Noorjehan Abdul Magid ha 45 anni ed è madre di migliaia di bambini del Mozambico. Tutti quelli che ha salvato dall'Hiv con una lotta giorno per giorno alla terribile infezione, ai pregiudizi, ai protocolli, alla scarsezza di mezzi. La sua avventura -straordinaria per il futuro di tanti malati di aids- comincia più o meno 15 anni fa, a Machawa, poco distante dalla capitale, Maputo. Difficile descrivere Noorjehan senza usare frasi fatte o ad effetto. Perché lei, con il suo aspetto poco appariscente, il capo incorniciato dal velo dell'Islam, il sorriso pronto e la battuta bonariamente aguzza, sfugge agli schemi. Non sembra l'eroina che è, insomma. 


Laureata in medicina da un paio d'anni, nel 2002, il sogno della specializzazione in pediatria, Noorjehan  incontra Dream quasi per caso. “E la mia vita ha preso una direzione inaspettata -mi racconta seduta davanti a un tè in un bar di Monteverde- Avevo una strada programmata. A Machawa facevo anche urgenza pediatrica, poi tutto è cambiato. Io non penso mai ai miei problemi perché questi malati ispirano una dedizione e una attenzione totale. Non ricordo quando è stata l'ultima volta in cui ho pensato ai miei, di problemi. Io sono una persona felice. Se mi chiedi di cosa ho bisogno, ti rispondo “di niente”, ho tutto. Ho una famiglia, mio padre, mia madre, due  fratelli, niente figli. Abito con i miei genitori, sono loro sono i miei grandi bambini”. 
Noorjehan parla almeno cinque lingue, tra le quali un perfetto italiano, l'inglese, qualcuna delle tante lingue indiane, retaggio delle origini, custodite in casa con l'attenzione che si deve alle proprie radici. La sua vita con Dream, il progetto della Comunità di S.Egidio contro l'HIV in Africa, scavalca anche il credo. Lei, musulmana credente, che avvia la sua auto con una preghiera in onore di Allah, si muove tra le religioni con grande scioltezza, sgretolando le eventuali ruvidezze antagoniste, semplicemente rifiutandosi di riconoscerle. “Vado ad Assisi dal Papa, se devo pregare prego anche in una chiesa cattolica, ovunque io sia. Questa è la mia natura, io rispetto le altre religioni e chiedo rispetto. La comunità dove lavoro lo fa. La mia famiglia anche. Mai mi ha privato del suo sostengo. Mai mi ha detto di stare lontana da cattolici, ebrei, altre comunità.  Noi sappiamo che l'obiettivo è comune. Abbiamo la stessa strada, siamo tutti fratelli”, ragiona disarmante. 



Noorjehan è una miniera di entusiasmo. Racconta dei suoi tre telefoni sempre in funzione, i cui numeri regala ai pazienti per varcare il ponte della fiducia e dell'abbraccio, per superare gli abissi di paura e tristezza. 
“Ho imparato tutto sul campo per un anno, con un professore che era sempre con me in corsia. Così, quando sono arrivati i corsi in Mozambico io ero troppo avanti”. 
Nei suoi racconti,  disegna un'Africa del passato prossimo nella quale non era permesso curare e parlare di cure, perché era impensabile dare speranza a tutti e solo i ricchi potevano rifugiarsi nel segreto delle costosissime cliniche private per cercare di comprare a 200 dollari al giorno una possibilità di vita. “Davamo solo palliativi -ricorda- per studiare un malato di Hiv dovevamo farlo di nascosto. Lavoravo con i malati di tubercolosi e morivano quasi tutti perché la tbc era una complicanza del Hiv. Ma non si poteva dire. Si parlava di palliativi e di prevenzione. Le terapie erano vietate”. Poi, ecco il progetto pilota di Dream, cominciato quasi in clandestinità. Non a caso non a Maputo, ma a Machawa, lontano dai riflettori. Nourja e i suoi curano soprattutto donne in gravidanza. Il successo le avvicina e i progetti si moltiplicano. “Oggi non ci sono più bambini malati nei nostri dieci centri. Anzi se chiedo per controllo quanti bambini ci sono, le risposte sono scandalizzate: non abbiamo bambini malati, si dicono. E i segnali sono tanti altri. Prima arrivavano nei nostri centro le nonne con i bimbi piccoli perché le mamme erano morte di Aids. Adesso vengono le mamme, con i figli grandi sieropositivi ma vivi e sotto controllo e i figli piccoli sani. E' davvero una grande felicità”. L'obiettivo Dream è portare sotto al 5 per cento il numero di bambini sieropositivi a fronte del 50 per cento che erano all'inizio del 2000. Dice Noorjehan : “Avevo una stanza con 60 letti e ogni giorno morivano circa quattro donne. Ho pensato di fare il test Hiv a tutte le malate e su 60, l'80 per cento era positivo. Era difficile anche solo fare il test. Quando studiavo per vedere un malato sieropositivo non poteva essere pubblico. Anche cogliere la storia clinica era complicatissimo. Si doveva evitare il panico perché non si sapeva come curarli, questi malati. È proprio per questo era anche molto difficile anche dal punto di vista emozionale dare a qualcuno la notizia che era malato di Hiv. Non era facile ammettere di avere Una cura per il cancro non per l'Hiv. Quanti sogni spezzati. Quanto dolore nella consapevolezza che la cura esiste e tu non ce l'hai”. 
Ora invece il filo di speranza offerto all'inizio del terzo millennio da Dream si è irrobustito: nel 2015 non sono nati bambini sieropositivi. E questi dati indicano quindi che è possibile arrivare a zero. “Ora bisogna lottare per mantenere questo zero -punta dritto Noorjehan - Il Mozambico è un paese africano con culture e tradizioni che non è facile mettere insieme con la medicina. Alcuni si rivolgono ai medici cosiddetti 'tradizionali', anche sciamani, diciamocelo. E vanno convinti a fare anche la cura medica. È una sfida, ardua. Con ogni persona si deve ricominciare da capo. Ci sono problemi sociali ed economici da affrontare, chiusure, mentalità. Ci sono giovanissime, anche 14 anni, che fanno figli e bisogna spiegare loro la prevenzione nei comportamenti. Noi organizziamo anche gruppi di sostegno, vengono il sabato, sono adolescenti sieropositivi e parlano tra loro e con gli assistenti sociali, i medici, gli infermieri”. 




L'impressione è che Noorjehan  non dimentichi uno dei 'suoi' malati. 
“Ne ricordo una, una bambina di 6-7 anni. E' stata l'unica volta ho pianto davanti a un paziente. La madre era morta pochi giorni prima di Natale, lei è venuta e io le ho detto: “figlia, scegli un regalo”. E lei: “non voglio un regalo, dammi mia madre”. Abbiamo pianto insieme. Il senso di impotenza era terribile. Le ho detto soltanto: “Anche io sono tua madre, dio ha bisogno di lei, è andata a fare un lavoro per dio. Ma come è stato difficile dire questo a una bambina così piccola”. 
E poi c'è l'aneddoto dell'uomo al quale la dottoressa  ha detto che era sieropositivo e lui ha chiesto soltanto quanto tempo aveva per fare il testamento. “Sono passati tre anni e ancora quel testamento non l'ha fatto”, sorride Noorjehan. L'ultimo lieto fine che racconta questa indomita dottoressa riguarda un ragazzo orfano di padre. Lui andava al centro medico con la madre. Quando lei si è risposata e ha cambiato zona, lui che aveva sei anni, ha smesso la cura. Dopo pochi anni anche la madre è morta e ha lasciato due figli orfani sieropositivi. Questo ragazzo è tornato al centro già cresciuto, ha ripreso  la cura e alla fine si è iscritto a medicina. “Sarà uno dei nostri. Ne siamo fieri. Noi portiamo queste esperienze ai malati disperati.Non sono solo parole, sono fatti che li aiutano a sperare”.


Il lavoro di Noorjehan  si diffonde in tanti piccoli rivoli per il Mozambico e, si immagina, per l'Africa ammalata da risanare. Un contagio positivo che ha portato i malati di Hiv all'11 per cento, un trend in discesa di buon auspicio per tutto il continente. Lei esce dalla corsia solo per far conoscere il suo lavoro al mondo. Ha avuto nel 2006 il premio Donna dell'anno in Val d'Aosta e il Klaus Hemmerle a gennaio 2016 in Germania, riconoscimenti che le servono per portare acqua al mulino della sua crociata contro morte e malattia. 





domenica 25 settembre 2016

I tre comandamenti di Francesco ai giornalisti



Sono passati un po' di giorni dalludienza di Papa Francesco ai giornalisti, quindi tutti sanno tutto e anche le interpretazioni, vere e presunte, dell'evento. Io sono stata molto contenta di esserci, nonostante un incrollabile approccio laico alla vita. Sicuramente l'effetto che fa questo Papa é ispirare quantomeno curiosità e attenzione. Con i suoi predecessori avrei con ogni probabilità declinato l'invito gentile del presidente dell'Ordine, ma in questo caso no. Certo, il Papa l'ho visto solo da lontano, ma non con il binocolo, anche perché non ho fatto la lunghissima fila per stringergli la mano e avere nella foto di rito il mio momento di gloria. Peccato, in un certo senso, la mia solita impazienza mixata con inclinazione a vivere in regia piuttosto che sul palcoscenico. Però mi sono fatta la foto con la guardia svizzera come una turista qualunque. 


Comunque, la mattinata é stata interessantissima. Cominciata con il piacere di incontrare un bel po' di colleghi, grazie ai quali aspettare per i super controlli di sicurezza é stato un momento di chiacchiere e aggiornamenti. Quasi un revival di molte epoche sovrapposte della sala stampa di Montecitorio. Poi si sale lo scalone fino alla sala delle udienze. Tutto molto simile al Quirinale, solo che al posto dei corazzieri trovi le guardie svizzere.




 La sala era gremita a posti in piedi, un composto overbooking, nel quale nessuno ha protestato e nemmeno sbuffato. Tutti più cortesi e accomodanti in Vaticano. Quando è arrivato il Papa, sono scattati in piedi tutti i telefoni, foto e video a prolungare le braccia. Già lo fanno tutti anche in ogni non occasione, come fosse una prova dell'esistenza in vita, figuriamoci una concentrazione di giornalisti. Tentazione non resistibile. 
Francesco fa il suo discorso, una specie di concentrato dell'etica del giornalismo, suona quasi banale, ma poi, a leggere le cronache del giorno dopo, capisci che in alcuni casi sono state parole al vento e che certa forma mentis non la cacci in nessun modo. Ma vabbè, questa è un'altra storia. 


Prima il saluto di Enzo Iacopino che ci ha tenuto, tra l'altro,  a sottolineare come i colleghi presenti fossero una mescolanza di fedi (e non fedi, dico) e che questo mestiere per certi di noi vuole anche dire pericolo e vite quotidiane distorte in difesa e in nome della libertà e delle schiene dritte. Il nome di Giancarlo Siani per tutti. Poi ha parlato Francesco. “Fate la prima bozza della storia, siete elemento portante della società. Quando potete, fermatevi a riflettere anche se non è facile”. E le direttrici sulle quali dovrebbe svolgersi questo mestiere: verità, professionalità, rispetto. Tre comandamenti, in sintesi. Pare ovvio, ma poi tanto ovvio non è. “Amate la verità -dice Francesco- la questione non è essere o non essere un credente, ma essere onesti con se stessi e con gli altri. Non sempre è facile arrivare alla verità. Non è tutto bianco o nero, nemmeno nel giornalismo. È difficile talvolta distinguere in modo chiaro chi ha torto e chi ha ragione. Arrivate almeno il più vicino alla verità”.
Poi si va avanti sul difficile: “vivere con professionalità significa comprendere il senso profondo del proprio lavoro. Ovvero non sottomettere il proprio lavoro alle logiche di parte. Le dittature vogliono sempre imporre nuove regole ai giornalisti oltre che impadronirsi di chi fa informazione”. Infine, rispettare la dignità umana perche “di chiacchiere come di terrorismo si può uccidere e la voce dei giornalisti è arma molto potente. La vita ingiustamente diffamata può essere distrutta per sempre”, sottolinea Papa Francesco per il quale le critiche sono  necessarie ma vanno coniugate con il rispetto”. Insomma, “il giornalismo
non può diventare un'arma di distruzione delle persone e popoli o alimentare la paura di fronte a fenomeni come la migrazione di persone spinte dalla guerra o dalla fame. Non c'è conflitto che non possa essere risolto da persone di buona volontà”. Ecco. Questo è quello che, in tutta coscienza ha colpito me delle parole del Papa. Con la riflessione fatta a posteriori di quanto questo concetti basici siano poi traditi in varie sfumature e gravità. Non si tratta di religione, ma di etica. Che vale in teoria per tutti. 


venerdì 23 settembre 2016

Festa di compleanno per Ght



Venerdì 23 settembre abbiamo festeggiato il terzo compleanno di Ght (Global Health Telemedicine) Una organizzazione giovane giovane, quindi, ma parecchio vivace. Pochi ospiti, al 90 per cento medici, nel bellissimo giardino di Santa Prisca all'Aventino, ormai designato domicilio prediletto degli eventi organizzati da Michele Bartolo, con la indispensabile regia di Elena Cara. 


L'occasione sforna anche la novità della fusione (in questo periodo le fusioni stanno diventano parte della mia vita, a quanto pare) con la onlus Nico i frutti del Chicco, onlus fondata da Giovanni Tortorolo e Nuccia Bianchini dieci anni fa e ora decisa a convogliare la sua energia nella telemedicina. 



L'Africa resta sempre al centro dell'attenzione, nei discorsi e negli obiettivi. Le postazioni in Centrafrica come i corsi di formazione e aggiornamento in Malawi o in Mozambico. Ogni medico ha una o mille storie da raccontare, ciascuno porta il suo contributo è anche nelle chiacchiere si delinea il riassunto dei traguardi di Ght in soli tre anni. 
E poiché il giornalismo come lo vedo io si fa forza anche dei dati, ecco qui un po' di numeri che trasformano i sogni in realtà. Come se ogni tanto fossero le zucche a trasformarsi in carrozze e non viceversa. In tre anni sono stati fatti quasi tremila teleconsulti in 16 specialità mediche differenti. La maggior parte delle riposte arriva entro le 12 ore. Ght organizza regolarmente corsi di formazione di aggiornamento gratuito per il suo staff, ma non solo. Ci sono quattro centri in Tanzania, cinque in Mozambico, tre in Malawi, due in Kenia. Uno in Togo. Guinea, Centrafrica, Camerun, Nigeria, Angola, Congo. 
Il foundrising resta il problema maggiore e ogni occasione -nonché idea- per raccogliere sostegni sono 
benvenute, considerato che sia le macchine per la diagnostica che il web per trasmettere richieste e risposte hanno bisogno di cure e manutenzione, medici e infermieri che operano sul campo di studi, aggiornamenti e, perché no, incoraggiamento psicologico. Perché in una avventura così difficile, in posti crudi e defilati, sentirsi parte aiuta a non scoraggiarsi e a irrobustire spirito e propositi. Si chiama spirito di squadra e, come é noto, può fare la differenza.