mercoledì 30 marzo 2016

Collezione di glicini







I glicini sono quasi il mio fiore preferito. Vengono subito dopo le amate peonie. Però, decisamente, il glicine su Roma mi affascina. Quando i suoi grappoli si aprono sui rami ancora spogli, di colpo scopri che è primavera. Girellando per la città, si trovano sculture quasi magiche. Il glicine ti fa scoprire angoli oscuri. Ti fermi a pensare quanto tempo ci ha messo per forgiarsi così, adattandosi e trasformando giardini e balconi.



Bisogna fare in fretta, però. Perché poi arrivano le foglie verde brillante, i fiori si amalgamano e l'effetto non è più quello. Quindi, quest'anno mi sono aggirata per Roma e ho creato una collezione di glicini. Poche parole, che loro dicono di più e meglio. Per rendere al massimo,  secondo me, 
i glicini hanno bisogno del giallo ocra dei palazzi di Roma, del suo esclusivo azzurro di cielo, di cancelli e balconi, giardini segreti e portoni assolati. Ombra e luce. Terrazzi e cortili. Villini e stradine. Racconti, storia, cronaca. Non importa. È bellezza. 





Foto di Letizia La Cava



Foto di Miche Mata, Pisa 

Foto di Rossella Caroli, Fori imperiali 

Foto di Lucia Scaffardi 

Trastevere, foto di Mathilde Elia 

Sacrofano, foto di Imelda Hogan 


lunedì 14 marzo 2016

Chiara a scuola di telemedicina in Mozambico



Chiara è diventata ormai una protagonista cara di questo mio blog. Il progetto di telemedicina, la missione Cuori Grandi di Amakpapè in Togo, i bambini, la scuola, sono diventati amici cari e se dopo un po' non sento notizie mi viene naturale chiedere aggiornamenti. Quadro volta, Chiara racconta delle settimane di formazione in Mozambico. Come nel suo stile é semplice ed emozionante. Racconta episodi meravigliosi di umanità quotidiana. Lascio come sempre a lei la parola. P.s. Le foto le ho rubate a Michele Bartolo. So che non me ne vorrà. 


Quando sono partita, non avevo le idee molto chiare su cosa avrei trovato ad aspettarmi in Mozambico: mi preoccupava l'idea che il corso fosse riservato a un target di medici, e che quindi avrei fatto fatica a seguirlo. Invece fra i 68 partecipanti c'era una buona parte di assistenti medici e di infermieri, e il livello del corso si è rivelato perfettamente calibrato per le mie conoscenze e capacità.
I relatori che si sono avvicendati parlavano in italiano, inglese e portoghese, e per ogni intervento era disponibile la traduzione simultanea in 4 lingue (italiano, inglese, francese e portoghese), in modo che nessun corsista fosse tagliato fuori, indipendentemente dal Paese di provenienza.
Nell'arco di cinque giornate (da lunedì 15 febbraio a venerdì 29) si sono susseguiti professori in Cardiologia, Infettivologia, Radiologia, Dermatologia, Medicina Interna e Neurologia che hanno approfondito temi affascinanti come l'interpretazione dell'ECG, la comorbidità dell'HIV con TBC, HPV e HBV, la radiodiagnostica del torace e dell'addome superiore, le infezioni cutanee di origine batterica, la fisiopatologia e i protocolli terapeutici dell'ipertensione, le neuropatie e l'epilessia.
A causa del poco tempo a disposizione, tutti questi argomenti non sono stati sviscerati in ogni dettaglio, ma soltanto delineati in generale: abbastanza, comunque, da fornire a ciascun corsista un bagaglio di conoscenze più efficace per l'assistenza e la cura del malato.
Ho particolarmente apprezzato la discussione sui casi clinici, vale a dire il resoconto medico-assistenziale di alcuni casi reali affrontati dal personale dell'ospedale di Maputo.
E' stata un'esperienza stimolante potermi confrontare con tanti professionisti della salute che, partendo da un background così diverso dal mio, hanno fatto la mia stessa scelta: quella di mettersi al servizio dei malati in un contesto di grande scarsità di risorse e di latitanza di quella tecnologia che in altri angoli del mondo i medici e gli infermieri danno per scontata.

Chiara è quella con il vestito turchese e i capelli raccolti 

Fra i banchi mattina e pomeriggio, e poi la sera tutti insieme in albergo, ho avuto l'occasione di conoscere colleghi provenienti da Mozambico, Swaziland, Centrafrica, Camerun, R.D. Congo, Guinea, Malawi e chi più ne ha più ne metta, e questa conoscenza mi ha arricchito più di quanto possa esprimere a parole.
Dopo un weekend di svago, durante il quale abbiamo visitato la cttà di Maputo e fatto anche una puntatina alla spiaggia (stupenda!), è cominciata la parte pratica del corso: da lunedì 22 a mercoledì 24 ci siamo suddivisi in gruppetti e siamo rimasti presso il centro Dream di Maputo riservato a bambini e ragazzi sieropositivi e alla prevenzione verticale dell'HIV, cioè la prevenzione della trasmissione del virus dalla donna incinta al figlio (contrariamente a quanto pensa la maggior parte della gente, il contagio pre-natale non è scontato: riguarda solo il 40% dei figli di donne sieropositive non in trattamento antiretrovirale, e questa percentuale scende al 4% se si parla di donne che assumono la terapia antiretrovirale).
In queste tre giornate dedicate all'applicazione pratica di ciò che avevamo studiato la settimana precedente, abbiamo "esplorato" il centro Dream, affiancando di volta in volta i medici, le infermiere e le farmaciste per "rubare loro i segreti del mestiere". Abbiamo anche seguito un corso accelerato di tecnica ecografica, che ci ha fornito i rudimenti su come far funzionare un ecografo e qualche trucco per individuare e inquadrare con la sonda gli organi addominali.
La parte che più mi ha affascinato, però, è stato il counselling ai malati di HIV. L'infermiera responsabile del counselling ha mostrato una grande umanità e professionalità nei confronti di ciascun paziente, e anche un'infinita pazienza verso di me, che la riempivo di domande in un portoghese stentato.
La scena che porterò per sempre con me è questa: mercoledì mattina una giovane madre entra nella stanzetta del counselling con in braccio la figlia di un anno e mezzo, una bambina grassoccia con indosso il vestitino della festa. La madre è sieropositiva, la figlia chissà. E' l'appuntamento fatale: all'età di 18 mesi i figli di madri sieropositive eseguono l'ultimo test: se risulta negativo, possono considerarsi sani (prima dei 18 mesi si può verificare un "falso negativo"). La madre è comprensibilmente nervosa, ha un sorriso tirato, con una mano si stringe la piccola al petto e con l'altra tormenta il manico della borsetta.
L'infermiera punge il ditino paffuto - la piccola aggrotta la fronte, ma incredibilmente non scoppia a piangere - e poi tutti gli occhi si inchiodano ai due pezzetti di plastica bianca posati sul tavolino, uno accanto all'altro (per sicurezza, l'ultimo controllo viene eseguito con due test di tipo diverso).
Trascorrono un paio di minuti durante i quali la bimba osserva svagata fuori dalla finestra.
Poi l'infermiera si china sui due test, se li avvicina al volto e... si concede un largo sorriso.
"Signora, sua figlia è sieronegativa! Attenda un minuto che le stampo il certificato."
Difficile descrivere il seguito: la madre che, piangendo di gioia, afferra la piccola sotto le ascelle e la fa danzare tra le proprie braccia, riempiendole il visino di baci, mormorando a bassa voce in portoghese una litania di ringraziamento. La bambina che, perplessa, accoglie l'entusiasmo materno come un piacevole, per quanto inspiegabile, diversivo.
Un pacchetto di biscotti spunta dalla borsetta e passa di mano in mano a mo' di festeggiamento, rivelando tutta la tenace speranza di una madre che, nonostante la paura di una sconfitta, aveva portato da casa l'occorrente per celebrare la vittoria.
Questa è la scena che mi porto dietro dal Mozambico e dal centro Dream, come emblema e incentivo per la lotta contro la malattia, e contro la povertà e l'ignoranza che della malattia sono i fedeli alleati.
Questa splendida esperienza - tutto ciò che ho imparato, tutte le persone che ho incontrato - è stata resa possibile grazie al generoso sostegno delle associazioni "Nico e i frutti del chicco" e "Luconlus", a cui va tutta la mia gratitudine.

sabato 12 marzo 2016

#ioviaggiodasola




I maschi uccidono per non capire. Perché è più facile usare la forza che la testa. È molto meglio poi dare la colpa alla vittima. La terribile storia delle due ragazze argentine uccise mentre erano in viaggio da sole dimostra quanto la mentalità maschile sia rimasta ai primordi dell'umanità. E quanta strada invece abbiano fatto le donne nel cercare di vivere la loro vita in pace. Obiettivo minimo, potrebbe sembrare, ma invece irraggiungibile, a quanto pare. L'omicidio e la lapidazione post mortem di Maria Coni e Marina Menegazzo sono femminicidi brutali, espressione della rabbia di possessi perduti, potere in pericolo, identità ataviche stralunate dalla realtà.
La storia è vecchia come il mondo. Ti vesti come ti pare? Non meravigliarti se vieni stuprata. Vai al lavoro? Ovvio che il tuo uomo ti tradirà. Non vuoi figli? Ma che donna sei, un mostro? Non parliamo poi, di scegliersi la vita. Minimo la morte. E il fango. 
Dunque, l'attacco alle due giovani viaggiatrici é nel quadro. Pochi anni fa fu uccisa Pippa Bacca, girava la Turchia vestita da sposa. Imprudente, forse. Ma ammazzata? Anche allora si disse, più o meno tra le righe, che 'se l'era andata a cercare'. L'ho provata io, questa violenza. L'aggressione maschile per essere ragazza in giro è stata negli occhi di mia figlia, costretta ad abbassarli e a nascondersi per sfuggire attenzioni non cercate. 
La novità, se vogliamo, oggi è la difesa di Guadalupe Acoste, la studentessa paraguaiana, che con il suo post ha traslato a livello mondiale l'ennesima violenza contro due donne. L'infiltrarsi rapido di questa protesta sul pianeta è sintomo di una diversa percezione del problema. 
Le prime pagine dei quotidiani spostano pensieri, forse qualche pranzo in famiglia affronterà l'argomento, in qualche cervello, anche maschile, speriamo, si accenderà un barlume. 
La libertà non è un scherzo, il rispetto nemmeno. Vale per tutti e per tutte. 
Avventurarsi da sole é difficile. Sempre. Ma se intraprendere il viaggio a deciderlo devono essere solo le donne, anzi le persone, qualunque persona. Il fattore esterno non può essere determinante. E il viaggio, chiariamo bene, può essere per latitudini e longitudini, ma anche da casa al lavoro, di giorno e di notte, in auto o a piedi, sole o insieme, verso qualcuno o qualcosa, acconciati comunque ci chieda la nostra anima.Quella è -sarebbe- libertà. E civiltà. La strada è lunga ma va percorsa. 

venerdì 11 marzo 2016

La finestra sul mondo




Non scrivo recensioni, di solito. Non è il mio stile, non il mio genere. Figuriamoci se mi arrogo di giudicare. Così, i racconti  della mia amica Danila sono rimasti per parecchio tempo nel limbo del comodino. Ma lei ci tiene, chissà perché. Dunque, mi cimento. E con sincerità. Libro sottile, ma polposo e sorprendente, come lei del resto. 'La finestra sul mondo' parla di donne. In realtà parla in prevalenza di donne tristi, disperate, problematiche. E di uomini arroganti, insensibili, inadeguati. Mondi che si feriscono e non si completano mai. Nelle storie di Danila, le donne sono segnate da retaggi culturali che prevedono la presenza maschile come elemento indispensabile, anche se negativo e protervo. Smaschera lo stereotipo che una donna senza un uomo è sola, non è 'riuscita', la donna che ha necessità di essere protetta. Antichi modelli patriarcali che sopravvivono nel fondo dell'anima e nonostante la realtà dimostri quotidianamente il contrario. E sotto sotto, mai espressa, la speranza del lieto fine, del 'e vissero tutti felici e contenti', principi azzurri e principesse rosee. Nel frattempo, sempre presente, c'è distillato il dolore delle donne, gli aborti e i bambini sfaldati, le botte, gli stupri fisici e verbali, i rifugi sintetici ingoiati a pasticche. 
In alcuni racconti i mali non sono sedimentati, le distanze non prese. Altri hanno personalità forte e idee, talvolta l'ironico sguardo sui toni horror  che può assumere la vita di ogni giorno. Come in 'Senza parole', nel quale Danila racconta una condizione fisica. Ma anche il silenzio dell'anima. 

martedì 8 marzo 2016

Oggi al Quirinale



Oggi sono stata al Quirinale dove Sergio Mattarella ha invitato un centinaio, forse più che meno, non mi so regolare,  di donne a celebrare la Giornata internazionale della donna. Una celebrazione, appunto, non una mondanità, anche se queste sono sempre occasioni di incontro e reincontro, visto che Roma é piccola, ma abbastanza dispersiva. Un onore, esserci. Nel Salone dei Corazzieri, insieme a partigiane, parlamentari di questa e altre legislature, ministre, giudici donna, avvocati donna, giornaliste. Tutte persone che hanno dato al Paese il loro contributo di cultura e cervello. 


Nel 2016 cade il 70 anniversario anniversario della Repubblica, che è anche l'anniversario del voto alle donne in Italia. La prima partecipazione, il referendum del 2 giugno. Al quale le donne in maggioranza votarono per il futuro, la Repubblica, mostrando già all'esordio  maturità politica e coraggio di distaccarsi dal già noto. 
Un filmato ha raccontato quegli anni, le voci al microfono  di alcune protagoniste di allora e madri della Repubblica -Marisa Cinciari Rodano, Maria Romana De Gasperi, Elena Marinucci, Lidia Menapace, Beatrice Rangoni Machiavelli- lo hanno reso attuale e vivo. In prima fila alcune donne sindaco, apripista dell'amministrare, si spera di bene in meglio. E le concertiste che hanno arricchito di note l'atmosfera. 
E dopo un meccanico discorso sulle riforme di Maria Elena Boschi, erudito ma senza anima, ha parlato Mattarella. Un intervento breve, ma non banale. 
L'astensionismo, che è più femminile che maschile, come un oltraggio alla  storia e alle sue protagoniste: “dopo tanta fatica per conquistarlo , non bisogna dissipare o accantonare il diritto al voto”. E poi, le disparità e le violenze: “Non è vera libertà se a parità di mansioni il salario di una lavoratrice è inferiore a quello di un lavoratore, come diceva, già all’Assemblea costituente, Maria Federici». «Non c’è libertà oggi - ha proseguito il presidente della Repubblica - quando la donna al lavoro è vittima di molestie fisiche o morali o viene costretta in spazi di sofferenza. La violenza sulle donne è ancora una piaga nella nostra società, che si ritiene moderna, e va contrastata con tutte le energie di cui disponiamo e con la severità di cui siamo capaci, senza mai cedere all’egoismo e all’indifferenza». E infine, “non è vero che il lavoro allontana dalla maternità. Anzi, è vero il contrario”.  
Bene, tutto giustissimo. Speriamo che questi concetti, dai e dai,  attecchiscano nelle menti maschili. 
A proposito, le mimose non c'erano. Sono state lasciate fuori, ad addobbare solo l'ingresso del Palazzo. In compenso c'era un picchetto d'onore tutto al femminile. E pure nella garitta, di guardia, c'era una donna. Pure se, a giudicare dal l'altezza, decisamente non era un corazziere. E questi sono fatti. 
 




lunedì 7 marzo 2016

8 marzo, alle donne non serve un 'giorno ghetto'




Vorrei rovesciare lo stucchevole copione dell'8 marzo dedicato alle donne. Giorno in cui le donne ricevono un fiore, vanno mangiare fuori tra amiche, fanno qualche -di solito moderata- goliardata. Insomma, un giorno ghetto in piena regola. Ecco, vorrei che invece questa giornata fosse rivolta a una riflessione sulla mentalità. Che soprattutto gli uomini dedicassero non un pensiero sorrisetto alle donne, ma una analisi dei loro comportamenti e pensieri. Mi piacerebbe che l'8 marzo -ma potrebbe essere il 1 gennaio, il 1 settembre, o qualsiasi altro diavolo di data- fosse l'inizio di un percorso di consapevolezza anche degli uomini. Basta aria di sufficienza e basta mimose. Basta dire 'festa della donna', torniamo, di grazia, a 'Giornata internazionale della donna'. Che parla di diritti e va trattata con rispetto come la Shoah, l'Olocausto e tanti di queste temi terribilmente seri, che nessuno si sognerebbe mai di ridurre in burletta. 
Perché, parliamo chiaro, di strada se ne deve fare parecchia. Il femminicidio é un problema molto serio. Sono serissime le botte e le sevizie, fisiche e psicologiche che subiscono molte donne. E sono uomini a commetterle. Le donne che sono cadute avevano non di rado denunciato, gridato il pericolo. Eppure sono morte circondate da persone e leggi che hanno sottovalutato, sminuito, liquidato. Perché  sono spesso uomini a condurre interrogatori brutali sulle vittime di violenza e a istruire processi lievi. Perché le donne vengono pagate meno degli uomini e fanno meno carriera, e sono in generale gli uomini a disprezzarle e sfruttarle. Pari opportunità e pari merito sono ancora solo belle espressioni vuote. E si pensa di celebrare le donne regalando loro un biglietto gratis per i musei o, grande magnanimità, dell'autobus. No, non mi pare che ci siamo. Ci vuole davvero un salto di qualità. Cambino il passo e la mentalità gli uomini. Si interroghino su come davvero si rapportano alle donne. Smettano gli uomini (ma anche le donne) di scambiare la scollatura per un cv. Smettano, gli uomini,  di pensare in termini di violenze, paternalismi, stipendi a doppia velocità, fango e furbizie sulle donne che riescono. Smettano le donne di usare i maschi come ascensori sociali o corsie di sorpasso. Smettano le donne di sentirsi angeli del focolare, del fax, del cda. 
Maschi e femmine insegnino ai loro figli uguaglianza e rispetto reciproco nelle diversità. Le donne non sono proprietà maschile e gli uomini non sono passaporti al benessere. È roba vecchia, ma ancora radicata. La mentalità deve cambiare anche nelle -e dalle- piccole cose. Una di queste é l'8 marzo. Non è una festa 'carina' come il 14 febbraio, è un momento per riflettere e fissare davvero obiettivi condivisi e diritti paritari, uomini e donne.