martedì 27 settembre 2016

Noorjehan che sconfigge l'HIV



Noorjehan Abdul Magid ha 45 anni ed è madre di migliaia di bambini del Mozambico. Tutti quelli che ha salvato dall'Hiv con una lotta giorno per giorno alla terribile infezione, ai pregiudizi, ai protocolli, alla scarsezza di mezzi. La sua avventura -straordinaria per il futuro di tanti malati di aids- comincia più o meno 15 anni fa, a Machawa, poco distante dalla capitale, Maputo. Difficile descrivere Noorjehan senza usare frasi fatte o ad effetto. Perché lei, con il suo aspetto poco appariscente, il capo incorniciato dal velo dell'Islam, il sorriso pronto e la battuta bonariamente aguzza, sfugge agli schemi. Non sembra l'eroina che è, insomma. 


Laureata in medicina da un paio d'anni, nel 2002, il sogno della specializzazione in pediatria, Noorjehan  incontra Dream quasi per caso. “E la mia vita ha preso una direzione inaspettata -mi racconta seduta davanti a un tè in un bar di Monteverde- Avevo una strada programmata. A Machawa facevo anche urgenza pediatrica, poi tutto è cambiato. Io non penso mai ai miei problemi perché questi malati ispirano una dedizione e una attenzione totale. Non ricordo quando è stata l'ultima volta in cui ho pensato ai miei, di problemi. Io sono una persona felice. Se mi chiedi di cosa ho bisogno, ti rispondo “di niente”, ho tutto. Ho una famiglia, mio padre, mia madre, due  fratelli, niente figli. Abito con i miei genitori, sono loro sono i miei grandi bambini”. 
Noorjehan parla almeno cinque lingue, tra le quali un perfetto italiano, l'inglese, qualcuna delle tante lingue indiane, retaggio delle origini, custodite in casa con l'attenzione che si deve alle proprie radici. La sua vita con Dream, il progetto della Comunità di S.Egidio contro l'HIV in Africa, scavalca anche il credo. Lei, musulmana credente, che avvia la sua auto con una preghiera in onore di Allah, si muove tra le religioni con grande scioltezza, sgretolando le eventuali ruvidezze antagoniste, semplicemente rifiutandosi di riconoscerle. “Vado ad Assisi dal Papa, se devo pregare prego anche in una chiesa cattolica, ovunque io sia. Questa è la mia natura, io rispetto le altre religioni e chiedo rispetto. La comunità dove lavoro lo fa. La mia famiglia anche. Mai mi ha privato del suo sostengo. Mai mi ha detto di stare lontana da cattolici, ebrei, altre comunità.  Noi sappiamo che l'obiettivo è comune. Abbiamo la stessa strada, siamo tutti fratelli”, ragiona disarmante. 



Noorjehan è una miniera di entusiasmo. Racconta dei suoi tre telefoni sempre in funzione, i cui numeri regala ai pazienti per varcare il ponte della fiducia e dell'abbraccio, per superare gli abissi di paura e tristezza. 
“Ho imparato tutto sul campo per un anno, con un professore che era sempre con me in corsia. Così, quando sono arrivati i corsi in Mozambico io ero troppo avanti”. 
Nei suoi racconti,  disegna un'Africa del passato prossimo nella quale non era permesso curare e parlare di cure, perché era impensabile dare speranza a tutti e solo i ricchi potevano rifugiarsi nel segreto delle costosissime cliniche private per cercare di comprare a 200 dollari al giorno una possibilità di vita. “Davamo solo palliativi -ricorda- per studiare un malato di Hiv dovevamo farlo di nascosto. Lavoravo con i malati di tubercolosi e morivano quasi tutti perché la tbc era una complicanza del Hiv. Ma non si poteva dire. Si parlava di palliativi e di prevenzione. Le terapie erano vietate”. Poi, ecco il progetto pilota di Dream, cominciato quasi in clandestinità. Non a caso non a Maputo, ma a Machawa, lontano dai riflettori. Nourja e i suoi curano soprattutto donne in gravidanza. Il successo le avvicina e i progetti si moltiplicano. “Oggi non ci sono più bambini malati nei nostri dieci centri. Anzi se chiedo per controllo quanti bambini ci sono, le risposte sono scandalizzate: non abbiamo bambini malati, si dicono. E i segnali sono tanti altri. Prima arrivavano nei nostri centro le nonne con i bimbi piccoli perché le mamme erano morte di Aids. Adesso vengono le mamme, con i figli grandi sieropositivi ma vivi e sotto controllo e i figli piccoli sani. E' davvero una grande felicità”. L'obiettivo Dream è portare sotto al 5 per cento il numero di bambini sieropositivi a fronte del 50 per cento che erano all'inizio del 2000. Dice Noorjehan : “Avevo una stanza con 60 letti e ogni giorno morivano circa quattro donne. Ho pensato di fare il test Hiv a tutte le malate e su 60, l'80 per cento era positivo. Era difficile anche solo fare il test. Quando studiavo per vedere un malato sieropositivo non poteva essere pubblico. Anche cogliere la storia clinica era complicatissimo. Si doveva evitare il panico perché non si sapeva come curarli, questi malati. È proprio per questo era anche molto difficile anche dal punto di vista emozionale dare a qualcuno la notizia che era malato di Hiv. Non era facile ammettere di avere Una cura per il cancro non per l'Hiv. Quanti sogni spezzati. Quanto dolore nella consapevolezza che la cura esiste e tu non ce l'hai”. 
Ora invece il filo di speranza offerto all'inizio del terzo millennio da Dream si è irrobustito: nel 2015 non sono nati bambini sieropositivi. E questi dati indicano quindi che è possibile arrivare a zero. “Ora bisogna lottare per mantenere questo zero -punta dritto Noorjehan - Il Mozambico è un paese africano con culture e tradizioni che non è facile mettere insieme con la medicina. Alcuni si rivolgono ai medici cosiddetti 'tradizionali', anche sciamani, diciamocelo. E vanno convinti a fare anche la cura medica. È una sfida, ardua. Con ogni persona si deve ricominciare da capo. Ci sono problemi sociali ed economici da affrontare, chiusure, mentalità. Ci sono giovanissime, anche 14 anni, che fanno figli e bisogna spiegare loro la prevenzione nei comportamenti. Noi organizziamo anche gruppi di sostegno, vengono il sabato, sono adolescenti sieropositivi e parlano tra loro e con gli assistenti sociali, i medici, gli infermieri”. 




L'impressione è che Noorjehan  non dimentichi uno dei 'suoi' malati. 
“Ne ricordo una, una bambina di 6-7 anni. E' stata l'unica volta ho pianto davanti a un paziente. La madre era morta pochi giorni prima di Natale, lei è venuta e io le ho detto: “figlia, scegli un regalo”. E lei: “non voglio un regalo, dammi mia madre”. Abbiamo pianto insieme. Il senso di impotenza era terribile. Le ho detto soltanto: “Anche io sono tua madre, dio ha bisogno di lei, è andata a fare un lavoro per dio. Ma come è stato difficile dire questo a una bambina così piccola”. 
E poi c'è l'aneddoto dell'uomo al quale la dottoressa  ha detto che era sieropositivo e lui ha chiesto soltanto quanto tempo aveva per fare il testamento. “Sono passati tre anni e ancora quel testamento non l'ha fatto”, sorride Noorjehan. L'ultimo lieto fine che racconta questa indomita dottoressa riguarda un ragazzo orfano di padre. Lui andava al centro medico con la madre. Quando lei si è risposata e ha cambiato zona, lui che aveva sei anni, ha smesso la cura. Dopo pochi anni anche la madre è morta e ha lasciato due figli orfani sieropositivi. Questo ragazzo è tornato al centro già cresciuto, ha ripreso  la cura e alla fine si è iscritto a medicina. “Sarà uno dei nostri. Ne siamo fieri. Noi portiamo queste esperienze ai malati disperati.Non sono solo parole, sono fatti che li aiutano a sperare”.


Il lavoro di Noorjehan  si diffonde in tanti piccoli rivoli per il Mozambico e, si immagina, per l'Africa ammalata da risanare. Un contagio positivo che ha portato i malati di Hiv all'11 per cento, un trend in discesa di buon auspicio per tutto il continente. Lei esce dalla corsia solo per far conoscere il suo lavoro al mondo. Ha avuto nel 2006 il premio Donna dell'anno in Val d'Aosta e il Klaus Hemmerle a gennaio 2016 in Germania, riconoscimenti che le servono per portare acqua al mulino della sua crociata contro morte e malattia. 





domenica 25 settembre 2016

I tre comandamenti di Francesco ai giornalisti



Sono passati un po' di giorni dalludienza di Papa Francesco ai giornalisti, quindi tutti sanno tutto e anche le interpretazioni, vere e presunte, dell'evento. Io sono stata molto contenta di esserci, nonostante un incrollabile approccio laico alla vita. Sicuramente l'effetto che fa questo Papa é ispirare quantomeno curiosità e attenzione. Con i suoi predecessori avrei con ogni probabilità declinato l'invito gentile del presidente dell'Ordine, ma in questo caso no. Certo, il Papa l'ho visto solo da lontano, ma non con il binocolo, anche perché non ho fatto la lunghissima fila per stringergli la mano e avere nella foto di rito il mio momento di gloria. Peccato, in un certo senso, la mia solita impazienza mixata con inclinazione a vivere in regia piuttosto che sul palcoscenico. Però mi sono fatta la foto con la guardia svizzera come una turista qualunque. 


Comunque, la mattinata é stata interessantissima. Cominciata con il piacere di incontrare un bel po' di colleghi, grazie ai quali aspettare per i super controlli di sicurezza é stato un momento di chiacchiere e aggiornamenti. Quasi un revival di molte epoche sovrapposte della sala stampa di Montecitorio. Poi si sale lo scalone fino alla sala delle udienze. Tutto molto simile al Quirinale, solo che al posto dei corazzieri trovi le guardie svizzere.




 La sala era gremita a posti in piedi, un composto overbooking, nel quale nessuno ha protestato e nemmeno sbuffato. Tutti più cortesi e accomodanti in Vaticano. Quando è arrivato il Papa, sono scattati in piedi tutti i telefoni, foto e video a prolungare le braccia. Già lo fanno tutti anche in ogni non occasione, come fosse una prova dell'esistenza in vita, figuriamoci una concentrazione di giornalisti. Tentazione non resistibile. 
Francesco fa il suo discorso, una specie di concentrato dell'etica del giornalismo, suona quasi banale, ma poi, a leggere le cronache del giorno dopo, capisci che in alcuni casi sono state parole al vento e che certa forma mentis non la cacci in nessun modo. Ma vabbè, questa è un'altra storia. 


Prima il saluto di Enzo Iacopino che ci ha tenuto, tra l'altro,  a sottolineare come i colleghi presenti fossero una mescolanza di fedi (e non fedi, dico) e che questo mestiere per certi di noi vuole anche dire pericolo e vite quotidiane distorte in difesa e in nome della libertà e delle schiene dritte. Il nome di Giancarlo Siani per tutti. Poi ha parlato Francesco. “Fate la prima bozza della storia, siete elemento portante della società. Quando potete, fermatevi a riflettere anche se non è facile”. E le direttrici sulle quali dovrebbe svolgersi questo mestiere: verità, professionalità, rispetto. Tre comandamenti, in sintesi. Pare ovvio, ma poi tanto ovvio non è. “Amate la verità -dice Francesco- la questione non è essere o non essere un credente, ma essere onesti con se stessi e con gli altri. Non sempre è facile arrivare alla verità. Non è tutto bianco o nero, nemmeno nel giornalismo. È difficile talvolta distinguere in modo chiaro chi ha torto e chi ha ragione. Arrivate almeno il più vicino alla verità”.
Poi si va avanti sul difficile: “vivere con professionalità significa comprendere il senso profondo del proprio lavoro. Ovvero non sottomettere il proprio lavoro alle logiche di parte. Le dittature vogliono sempre imporre nuove regole ai giornalisti oltre che impadronirsi di chi fa informazione”. Infine, rispettare la dignità umana perche “di chiacchiere come di terrorismo si può uccidere e la voce dei giornalisti è arma molto potente. La vita ingiustamente diffamata può essere distrutta per sempre”, sottolinea Papa Francesco per il quale le critiche sono  necessarie ma vanno coniugate con il rispetto”. Insomma, “il giornalismo
non può diventare un'arma di distruzione delle persone e popoli o alimentare la paura di fronte a fenomeni come la migrazione di persone spinte dalla guerra o dalla fame. Non c'è conflitto che non possa essere risolto da persone di buona volontà”. Ecco. Questo è quello che, in tutta coscienza ha colpito me delle parole del Papa. Con la riflessione fatta a posteriori di quanto questo concetti basici siano poi traditi in varie sfumature e gravità. Non si tratta di religione, ma di etica. Che vale in teoria per tutti. 


venerdì 23 settembre 2016

Festa di compleanno per Ght



Venerdì 23 settembre abbiamo festeggiato il terzo compleanno di Ght (Global Health Telemedicine) Una organizzazione giovane giovane, quindi, ma parecchio vivace. Pochi ospiti, al 90 per cento medici, nel bellissimo giardino di Santa Prisca all'Aventino, ormai designato domicilio prediletto degli eventi organizzati da Michele Bartolo, con la indispensabile regia di Elena Cara. 


L'occasione sforna anche la novità della fusione (in questo periodo le fusioni stanno diventano parte della mia vita, a quanto pare) con la onlus Nico i frutti del Chicco, onlus fondata da Giovanni Tortorolo e Nuccia Bianchini dieci anni fa e ora decisa a convogliare la sua energia nella telemedicina. 



L'Africa resta sempre al centro dell'attenzione, nei discorsi e negli obiettivi. Le postazioni in Centrafrica come i corsi di formazione e aggiornamento in Malawi o in Mozambico. Ogni medico ha una o mille storie da raccontare, ciascuno porta il suo contributo è anche nelle chiacchiere si delinea il riassunto dei traguardi di Ght in soli tre anni. 
E poiché il giornalismo come lo vedo io si fa forza anche dei dati, ecco qui un po' di numeri che trasformano i sogni in realtà. Come se ogni tanto fossero le zucche a trasformarsi in carrozze e non viceversa. In tre anni sono stati fatti quasi tremila teleconsulti in 16 specialità mediche differenti. La maggior parte delle riposte arriva entro le 12 ore. Ght organizza regolarmente corsi di formazione di aggiornamento gratuito per il suo staff, ma non solo. Ci sono quattro centri in Tanzania, cinque in Mozambico, tre in Malawi, due in Kenia. Uno in Togo. Guinea, Centrafrica, Camerun, Nigeria, Angola, Congo. 
Il foundrising resta il problema maggiore e ogni occasione -nonché idea- per raccogliere sostegni sono 
benvenute, considerato che sia le macchine per la diagnostica che il web per trasmettere richieste e risposte hanno bisogno di cure e manutenzione, medici e infermieri che operano sul campo di studi, aggiornamenti e, perché no, incoraggiamento psicologico. Perché in una avventura così difficile, in posti crudi e defilati, sentirsi parte aiuta a non scoraggiarsi e a irrobustire spirito e propositi. Si chiama spirito di squadra e, come é noto, può fare la differenza. 




sabato 17 settembre 2016

Questione di costume




Tra gli effetti del referendum, forse collaterali, forse no, c'è anche una specie di sospensione della vita che, dall'alto al basso, condiziona, e un po' paralizza anche, la vita politica e non. Da qualche tempo in qua non si fa che sentire la stessa solfa: aspettiamo di vedere cosa succede con il referendum.., oppure, passato il referendum si vedrà... O in variante, appena si saprà la data del referendum sarà più chiaro... Le declinazioni dell'attesa si propagano anche in rivoli inaspettati e il ritornello fa capolino anche dove non dovrebbe. Sta di fatto che in una fase economica nella quale tra le cause maggiori della mancata ripresa è additata esattamente l'incertezza, questa sospensione cristallizzata fino  alla pronuncia dei cittadini sulla riforma costituzionale è un potente ricostituente per la crisi. Nessuno si muove, passi non se ne fanno per paura di prendere la direzione politicamente sbagliata e il time out è diventato infettivo a cascata. 
Lasciamo perdere la noia sulla personalizzazione del dibattito. Il dado è tratto, non si può personalizzare o spersonalizzare a piacimento, ormai nessuno toglierà al voto un bel di margine di pro o versus Renzi con tutto quel che ne deriva. Tanto più che le promesse piovono su questa o quella categoria come manna dal cielo e, suvvia, chi può evitare il retropensiero di captatio benevolentiae in vista di questa benedetta consultazione. Aspettiamo dunque a pie' fermo la fatidica data (ormai ci siamo quasi, no?) e la pronuncia della Corte sull'Italicum. Anche loro, a quanto si mormora, probabilmente contagiati dal virus del “vediamo l'esito del referendum e poi decidiamo” e dunque propensi a fare del 4 ottobre solo una data cerniera. 
Comunque, c'è di buono che l'interesse dei cittadini per questa riforma della Costituzione si è rinfocolato come poche volte. Più interesse da bar, per la verità, che approfondimento, nella maggior parte dei casi. Però la voglia di saperne di più si espande. E mi è capitato di essere invitata a casa di cari amici, Nuccia e Giovanni, che hanno chiamato a raccolta un po' di persone -non giornalisti, grazie al cielo- ad ascoltare un costituzionalista per il No. Un bel terrazzo, ottimo cibo, conversazioni consapevoli e curiose, generazioni diverse. 
La cosa più interessante che è emersa, secondo me, è che la chiave di tutti i mali sta nei comportamenti molto più che nelle leggi. Lo sciorinare di tutte le obiezioni, tecniche, politiche, giuridiche, sui costi, alla Boschi-Renzi quasi si annulla di fronte a questo scoraggiante assunto. 
Dice il costituzionalista e io sono totalmente d'accordo: “Noi stiamo dando alla Costituzione vizi che appartengono ad altro. Il problema non è se la riforma sia o meno desiderabile, ma su quale tessuto si innesta. Ma è realistico pensare che il problema dell'Italia sia questo? La Costituzione deve essere la vittoria di tutti contro nessuno. Non a caso tutti gli Stati prevedono una maggioranza molto più alte di quella assoluta per cambiarla. Perché è giusto che la riforma costituzionale sia difficile. Inoltre, le regole vanno stabilite insieme. Il solo fatto che una maggioranza si sia approvata questa riforma in solitudine è preoccupante. Anche come precedente storico perché apre la strada al principio che la Costituzione non è più di tutti ma del governo di turno. 
Se vogliamo essere riformisti, riformiamo tutto: sanità, scuola, università ecc. Ma non la Costituzione. Sfido chiunque a trovare un cittadino che, se dovesse scrivere su un foglietto i 5 mali maggiori dell'Italia, annovererebbe tra questi il bicameralismo perfetto o paritario che dir si voglia. La mancanza di cultura politica impone un rafforzamento delle garanzie costituzionali, non il loro indebolimento”. 
Il professore ha messo in rilievo un punto centrale del problema. Le regole possono essere le migliori del mondo, ma se chi le deve utilizzare pensa solo ad aggirarle o a neutralizzarle, non sono le regole il problema. Soprattutto in un paese che ha condensato la sua filosofia spicciola nel detto agro “fatta la legge, trovato l'inganno”. Perciò, a parte le questioni da costituzionalisti che lascio a loro, penso che questa riforma abbia alcuni peccati originali. Essere stata approvata a maggioranza, con la fiducia, e per di più con maggioranze ogni volta variate, segno inequivocabile che si è trattato di convenienze partitiche se  non proprio personali e non di profondi convincimenti politici. Insomma, una legge viziata dal peggior trasformismo. Con il suo corollario diretto: d'ora in poi ognuno potrà fare riforme costituzionali a sua immagine e convenienza contingente, sopratutto godendo di una maggioranza parlamentare resa più o meno invulnerabile e onnipotente dalla legge elettorale e non espressione della volontà dei cittadini. E poi, onestamente, ma davvero non sarebbe stato meglio dedicarsi ventre a terra a trovare soluzioni per i migranti e per abbassare sul serio le tasse, o costruire un mondo del lavoro che rifletta sul serio gli equilibri sociali e ne incentivi i lati positivi, lasciando a secco improduttività e illegalità? Perché dedicare così tanto tempo al bicameralismo, pure da abolire, invece che alla lotta alla corruzione che strozza la nostra economia in culla? Dedicare tempo, intelligenza e denaro a fingere di rottamare il Senato, rendendolo invece solo meno autorevole e più opaco (con queste norme potremmo avere una Minetti o un Fiorito senatori e dunque protetti da immunità) e sicuramente non molto meno costoso, non è un controsenso? Insomma, argomenti di riflessione politica ce ne sono parecchi. Serpeggiavano su quel terrazzo, con genuino interesse da parte degli ospiti. E questa è una ottima notizia, la curiosità è la peggior nemica del qualunquismo e del lasciar fare. 

giovedì 15 settembre 2016

Vita nuova



Ormai sono passati un po' di giorni dall'inizio del nuovo lavoro e posso dire che la notizia è di pubblico dominio. Del lavoro in sè non parlo, troppo poco tempo e riservatezza mi sconsigliano  vivamente. Però una riflessione generale voglio farla. Trovo di aver avuto una grandissima fortuna. In un tempo in cui il lavoro non si trova e chi lo perde affronta i meandri dolorosi della disoccupazione con i corollari di finti amici, porte chiuse, sospiri a braccia allargate, io non solo non sono stata nemmeno un giorno a casa, ma ho trovato occupazioni importanti e stimolanti. Me ne sto nel mio nuovo ufficio alle prese con temi diversi, campi da studiare, argomenti da approfondire. E sono felice di trovarmi nella privilegiatissima posizione di fare una cosa nuova che mi appassiona e non impantanata in routine senza gratificazioni o addirittura vessatorie. E poi, qui ho ritrovato parecchio dello spirito con il quale lavoravo e si lavorava in generale alla Camera. Nei corridoi e negli ascensori sento discutere di casi e pratiche, le persone sono appassionate di quello che fanno, ci pensano e ci riflettono, si confrontano e anche quando si incontrano oltre le scrivanie colgono l'occasione per un aggiornamento o per chiarire un dubbio. C'è, insomma, precisione. 
Anche in queste stanze ci saranno lati oscuri, scontentezza o veleni, come ovunque, figuriamoci. Non pensò di essere capitata in wonderland.  Eppure non sono il primo pensiero, almeno in generale. C'è senso di appartenenza e orgoglio. E il lavoro prevale su pettegolezzi e maldicenze. 
Dalla finestra vedo perfino le montagne, oltre la selva di antenne e parabole, che se  almeno una parte degli edifici si decidessero alla centralizzata non sarebbe male per niente. 
Considero un privilegio, dopo trent'anni sulla breccia, aspettare contenta la giornata da cominciare in ufficio. Che, no, non è più una redazione, ma un palazzo istituzionale. Nuova vita, nuove esperienze. Come dice un mio amico, another country, another dream.