martedì 26 maggio 2015

Storie di telemedicina - Fredric e lo scorpione del grano



   Fredric in braccio a Nicola 

Frederic io l'ho conosciuto personalmente ad Amakpapè. Un ragazzino sveglissimo, servizievole, intelligente e con un gran senso dell'umorismo. Così rendermi conto che era finito tra i 'casi' della Telemedicina è stato uno shock. Meno male che, posso anticipare, la storia finisce bene e lui è di nuovo sul campo. 
Interprete infaticabile per l'ambulatorio, fotografo durante la gara di corsa organizzata il nostro ultimo giorno alla missione, pronto a dare una mano e a fornire informazioni per agevolare i contatti tra la multilingue comunità del villaggio e gli abitanti della missione. Memorabile la sua risposta fulminante a una battuta  in infermeria: " mi spiace, non scherzo mai quando lavoro”. 


Frederic ha 13 anni, nato il primo gennaio 2002 (data per 'convenzione' o reale non sappiamo). Qualche giorno fa è stato punto da uno scorpione mentre dava una mano nelle faccende di casa: stava spostando delle granaglie che la mamma aveva steso ad asciugare su un telo, in cortile. La mano ha cominciato immediatamente a gonfiarsi e a fargli molto male. Tanto che sua madre gli ha legato un pezzo di stoffa stretto stretto intorno al polso per cercare di bloccare la diffusione del veleno e lo ha accompagnato all'infermeria di Amakpapè. 


Racconta Chiara, infermiera cardine ad Amakpapè, che, non disponendo del siero antiveleno, ha mandato Frederic  al dispensario pubblico, raccomandandogli di tornare subito dopo. “Siccome dopo diverse ore non era ancora tornato, ho chiuso l’infermeria e sono andata a cercarlo a casa sua: era lì, con la mano gonfia il doppio delle dimensioni normali e le lacrime agli occhi per il dolore. Al dispensario gli avevano detto che il siero antiveleno per lo scorpione non esiste (è vero, ho telefonato a un chirurgo di Notsé e mi ha confermato che in Togo non è disponibile alcun siero per il veleno dello scorpione), e che quindi non c’era niente da fare”. Da Roma, l'infettivologo concorda. Senza antidoto, poco si può fare, a parte, suggerisce  a Chiara, "naturalmente pulire la ferita, alcuni consigliano di fare uscire sangue. Applicare sulla ferita benzina (forse per neutralizzare il veleno??) o fare ricorso alla cosiddetta pietra nera dei missionari. Comunque sorvegliare PA, FC e febbre: Valutare eventuali reazioni allergiche.Somministrare antibiotico come ampicillina e antidolorifici (Tachipirina etc). Sembra che passate le prime 24 ore si sia fuori pericolo".Cosi Chiara, sempre seguendo le indicazioni da Roma,  si munisce di termometro, pulsiossimetro e sfigmomanometro pediatrico e va da Frederic.  Con questi strumenti, ha potuto constatare che i parametri vitali erano tutti buoni. E ha impostato la terapia antibiotica suggerita dall'Italia e tarata esattamente sul peso e l'età del piccolo paziente.  Non senza una lezione sulla cura di se stessi: “l’ho un po’ rimbrottato per non essere tornato in infermeria dopo che l’avevano mandato via dal dispensario”. Chiara è tornata più volte a casa di Frederic  per assicurarsi che proseguisse la terapia antibiotica. Già la sera, racconta “l’ho trovato di buon umore, meno gonfio e meno dolorante”. Il giorno dopo Frederic  è passato all’antibioticoterapia orale e nei giorni successivi non ha più avuto bisogno di assistenza, “anche se ogni tanto veniva a trovarmi per ringraziarmi e per rinnovare la scorta di antidolorifici”.
Insomma, guarito. “Il giorno in cui abbiamo distribuito le pagelle del secondo trimestre c’era anche lui, in qualità di fratello maggiore di Souzanne (prima elementare). Adesso non lo vedo più tanto spesso, è ricominciata la scuola anche per lui”, tira le somme Chiara.
E c'è da dire che, in questo caso, l'abbandono dell'infermeria è un segno ottimo.  Secondo me, Frederic tornerà  se ci sarà bisogno di lui come interprete o se avrà nuove curiosità da soddisfare. È' un ragazzino da non perdere d'occhio. 

P.s. A me resta la curiosità di sapere cos'è la pietra nera del missionario... 

sabato 23 maggio 2015

Storie di telemedicina - Yayra, neonata a sette mesi




Dopo aver partecipato all'avventura di installare la telemedicina nella missione di Amakpapè, in Togo, con Michele Bartolo di Ght, abbiamo pensato che sarebbe stato interessante vedere come funziona nella realtà delle settimane e dei mesi. I risultati dell'unione  delle forze di Ght, Nico i frutti del chicco e Luconlus. Alla prova 'senza rete', insomma. Fa da apripista questa storia. Sembrava destinata a concludersi bene e invece la fine è molto triste. 
La protagonista è Yayra, che ha sette mesi ma sembra una neonata. Pesa 2.500 kg ed è lunga solo 50 centimetri. La circonferenza del suo braccio è meno di 8 centimetri. Insomma, soffre di una "malnutrizione severa". Questo perché Yayra non riesce a mangiare. Il latte che prende non riesce ad inghiottirlo, ma le esce dal naso. La mamma ha già chiesto aiuto alla sanità togolese, ma dopo aver diagnosticato alcune malformazioni congenite dell'occhio, dell'orecchio, della faccia e del collo e deformazioni congenite e anomalie cromosomiche, hanno allargato le braccia. Nessuna cura. 


Responso difficile da accettare per una mamma, che lavora come venditrice al grand marchè di Lomè. Così Yayra, dalla capitale  arriva alla missione di Amakpapè, solo 80 kilometri, ma non di autostrada, diciamo. Chiara, l'infermiera la visita e, tramite la Telemedicina, chiede il conforto di uno specialista. Risponde una neonatologa da Roma. Che chiede alcune foto, spiegando dettagliatamente che cosa 'illuminare' e dando alcuni consigli pratici. “Potrebbe trattarsi di una labio-palatoschisi, visibile all'esterno, o di una palatoschisi che è possibile evidenziare aprendo la bocca della paziente ed illuminando il palato con una luce sufficientemente intensa; la prova definitiva si ha con la seguente manovra: introdurre il dito indice nella bocca della piccola e passarlo su tutta la superficie del palato, così da "sentire" l'eventuale fissurazione della sua parte ossea o della sua parte molle (palatoschisi della porzione anteriore o posteriore del palato). Una volta accertato il problema, se di questo si tratta, in attesa del trattamento definitivo, che è chirurgico, è possibile favorire l'alimentazione con l'uso di una "tettarella otturatoria", o un otturatore palatale (una protesi in plastica o silicone da tenere in bocca). Un esempio è visibile al seguente link:http://nuk.it/experinterviews/medicpro/productdetail/?p=10.107.001<y=m&lid=8In alternativa, è possibile alimentare la bambina con sondino orogastrico o nasogastrico, ma è necessario possedere adeguata competenza e addestramento in merito, e non so se sia una strada praticabile nel caso specifico. 

A latere, faccio presente che il sondino è anche utile per verificare l'eventuale presenza di atresia esofagea, cioè un mancato sviluppo di una parte dell'esofago, tale per cui il latte non riesce ad arrivare allo stomaco: in tali casi però il latte facilmente passa nelle vie respiratorie e causa crisi di soffocamento subentranti, per cui è difficile che il paziente sopravviva per tutto questo tempo (anche perchè è impossibile alimentarlo per os, e l'intervento chirurgico si impone in tempi assai rapidi)".




Ho copiato integralmente il virgolettato della risposta perché mi sembra molto interessante l'uso di un linguaggio tecnico, ma semplice. E che la neonatologa mandi anche un link per aiutare Chiara a eseguire la visita nel modo più corretto possibile. La diagnosi suggerisce di concentrarsi sul palato e trascurare le altre piccole malformazioni a mani e piedi.

Ci sono poi i consigli per fotografare al meglio la piccolina. E il più generale avviso che è sempre meglio fotografare i neonati nudi, in modo da avere un quadro il più possibile completo. 

Questa è Yayra, per ottenere l'immagine del suo palato, è stato necessario farla piangere, ma... In questo caso vale il machiavellico 'il fine giustifica i mezzi'. 

Chiara ha mandato le foto e la diagnosi è tornata indietro rapidamente, insieme al nome di una onlus (Smile Traine) che si occupa proprio di questo problema e fa interventi in Africa. 

Purtroppo le tettarelle inviate dall'Italia apposta per lei non sono arrivate in tempo. Yayra è morta prima per una crisi respiratoria. Lo spiraglio di speranza si è chiuso troppo presto. 

Yayra doveva essere  ricoverata a Notsé nel programma per malnutriti, per farle mettere su un po’ di peso prima dell’operazione, nell'ambito di una campagna di chirurgia pediatrica partita proprio ieri, il 25 maggio. Ma non ce l'ha fatta. 


Sull'onda emotiva, quando ho appreso la brutta notizia, avevo tolto questo racconto. E invece no. "L'Africa è anche questa -ha detto Michele- questo triste epilogo conferma la necessità di darsi sempre e ancora da fare. Senza mollare mai". Mi è sembrato giusto e quindi ecco di nuovo la storia di Yayra, con la sua fine buia e prematura. 

martedì 19 maggio 2015

Nostalgie e ritorni



Fatta non fui per viver sedentaria. Tornare non è la mia specialità. Non ci sono tagliata. E, in effetti, io non torno mai indietro. Quindi, ogni volta che stacco il biglietto del rientro, soffro. Leggo di persone che spasimano il loro letto, il cibo, caffè e parmigiano, le strade di casa, luci, ombre, colori e abitudini. Ecco, per me vale tutto il contrario. Bello, per carità, i primi cinque minuti dopo che il carrello tocca la pista, ma già Fiumicino mi sta stretta. Mi irrita. Essere a casa mi fa sentire estranea, la gente che mi capisce e canta la solita canzone mi fa cadere le braccia. Dovessi dargli un colore, il ritorno è blu. Chissà perché. 


Apro la porta, la gatta mi corre incontro. Talvolta. Se non è troppo offesa dell'abbandono. Se sono fortunata, poi, è venuta la signora delle pulizie e non c'è polvere.  Prendo atto dell'immancabile moria di piante. Le lavatrici. Il ritorno al lavoro. I racconti del viaggio. 
Gli amici mi accolgono, vogliono sentire storie, commentano quello che hanno letto sul blog. E io mi crogiolo negli ultimi barlumi del viaggio, quando le foto non sono ancora proprio ricordi e le spezie non sono evaporate.
Sono tornata diversa, si torna sempre diversi, no? Ma qui cose, persone e meccanismi non se ne accorgono. Il ritmo è lo stesso e in pochi giorni tutti dimenticano e riprendi posto nel tuo mondo. Il segno non si vede, un po' come la coda di paglia. 
Quello che mi crea insofferenza profonda è che a Roma non cambia mai niente. La chiamano la città eterna mica per niente. Eternamente uguale a se stessa. Buche, riti, lamentele e intrattenimenti si dilungano in loro stessi. Il paesaggio perenne e immutato. Per carità, non sono cieca alla bellezza. Roma la guardo sempre con grande ammirazione e le riconosco la capacità di svelare angoli mai piatti. Però, però, un filo troppo compiaciuta di sè, forse? Insomma, quando ne sto lontana non mi torna in mente. 


La mia parte nostalgia è tutta estroversa. Mi mancano i bradipi e le tartarughe marine del Costarica, gli elefanti dello Sri Lanka, il cibo cinese doc e alla Città proibita darei volentieri molte altre occhiate. Mi assesterei per un po' nella missione di Amakpapè, prenderei una stanza comoda a Puerto Vieho ma anche a Tamarindo, passerei un mese a bighellonare sulle rive del Mekong. E che dire di un vagare per isole greche, magari imparando l'Odissea meglio del poco che so. Tanto per dirne qualcuna. Desiderio di tempo più lungo. 
In generale, direi che mi mancano le persone, alcune, poche e sparpagliate,  mai Roma e le sue grandi bellezze. 


Che poi, in un posto puoi anche starci una settimana e vederlo con lo spirito del viaggiatore e invece restarci da turista perenne. Questione di occhi. Questione di prospettiva. Però, poiché i viaggiatori sono più rari dei turisti, la sensazione prevalente è quella del mantello dell'invisibilità ai cambiamenti. Trova le dieci piccole differenze tra il prima e il dopo un viaggio. Io le sento, ma sono impercettibili senza il microscopio dell'affinità. Così me ne resto sola sotto ai vestiti della norma, tacchi e parrucchiere d'ordinanza. E covo braci d'avventura. Fino alla prossima.

lunedì 11 maggio 2015

Le Reginelle di Flora



Chi mi conosce anche poco sa che la moda non è cosa mia, figuriamoci se frequento e so di sfilate. Quindi scrivo per raccontare la storia della impresa di Flora che ha creato, cucito e poi portato agli occhi i suoi abiti. E ne ha fatto una festa. "Gioco di squadra”, dice il papà Giorgio Pagano, mentre racconta il retroscena. Sfuggono lacrime allegre alla mamma Rosaria, che, se capisco bene, con ago e filo ha cucito punti e fermezza. 

 
   

Tramonto di luglio sul Tevere romano, non fosse per il mare di polline che fluttua su modelle e ospiti. Coreografia naturale. Come se fossimo capitati in una delle famose palle di vetro scosse a neve. 


Giorgio ripercorre i cinque anni a scuola di questa figlia ventiquattrenne, venuta 17 anni fa dall'Equador, dell'impresa di Giganti e Titani, sarte notturne per arrivare puntuali alla serata. 
I vestiti sono belli, belli sulle amiche alte, basse, magre, tonde. Ragazze insomma. Non stampelle, non extraterrestri. Indossano intarsi di colore e intrecci insoliti di stoffe sulla carta incompatibili. 
Sorridono anche se il tacco si impiglia nel parquet intorno alla piscina. Progettato per zoccoli e infradito, più che per sfilate ondeggianti. Ma il tifo applaude e sorride sincero. Ci sono calore e freschezza. Il team di Flora è di ferrea sintonia. Il risultato c'è. Alla fine fioccano fiori e abbracci sulla protagonista. Le 'modelle per un giorno' si mescolano agli ospiti per i festeggiamenti. Da domani si torna al cesello di stoffe e colori. 


   "Voglio essere utile a tante ragazze e donne e farle vestire come vogliono", è il manifesto di Flora. Che guizza poi sul napoletano:  "to vuó fa fa' nu vestito? ... Anche non scollato, senza nastri e senza rose, come una Reginella d'oggi". E quindi chi vuol essere regina non ha scuse.


   


domenica 10 maggio 2015

La festa della mamma lontana




Comincia prima, molto prima. Ma 'il momento' del carpiato del cuore è quando leggo 'landed'. Cioè è qui, ormai a pochi metri e a manciate di minuti l'abbraccio. Ogni volta che Flaminia torna da Lancaster è così. Mica mi abituo. Mi abituo all'assenza, ormai. Semmai. Ma ai ritorni no. Sono sempre una fonte di felicità. Certo, come avverte il mio psicanalista, metto troppa aspettativa, ma anche questa ormai l'ho imbrigliata. Non si guarisce dalla mammità. Ma si può abbigliare diversamente, con fiocchi di ironia, bottoni di leggerezza, che so, una spilla di fintissimo distacco. Una madre è costretta a inventare sotterfugi disgustosi per mascherare. 


Insomma, la cosa è che man mano che si avvicina la data dell'arrivo, io sento la mancanza addensarsi. Di colpo i mesi si fanno pesanti e non si sopporta più nemmeno il secondo. 
La notte prima è agitatissima. Ogni genere di bastone tra le ruote si materializza nell'ombra e sembra che il tempo faccia dispetti a gogò. Il viaggio all'aeroporto è come in trance. E poi 'landed'. Le porte di Ciampino per un po' si aprono liberando sconosciuti a ripetizione. Finché non si alza il sipario e la gola si scioglie.
La festa della mamma è pure così.