sabato 30 agosto 2014

Maschilismi





- driiiin
- pronto? 
- buon giorno, sono l'on.... Chi comanda oggi li da te?
- io...
- ah... Sei sola? 
-... No... 

E che non sono cose degli altri mondi pure queste? 

venerdì 22 agosto 2014

Il mondo di ieri - Nonna Maria




Eccola qui, nonna Maria, come io non l'ho vista mai, ma come lei si è sempre sentita. Anche dopo, quando era una nonna, bassina, un po' cicciottella, sempre sorridente e complice. Lei è stata inossidabilmente e fino alla fine la più bella di corte, l'anima delle feste, la ballerina scanzonata. Quella che aspettava mio nonno al balcone e, se del caso, faceva cadere il fazzoletto... Di pizzo, ovviamente... 
Naso fino comune alle bellezze della famiglia, capelli biondi che dopo il tifo erano rincresciuti rossi, (leggenda ?) sorriso splendente, fisico non minuto reso irresistibile da abiti, cappelli  e gioielli d'altri tempi.



Mia nonna ha traversato la vita lieve. I tre figli affidati a Fraulein, il cibo alla cuoca Anna, il marito accudito dal suo attendente. E comunque sempre pronto, come facevano i mariti di una volta, ad essere lui l'accudente. E adorante. I miei nonni si sono voluti bene per davvero. Ricordo mio nonno guardarla sempre con gli stessi occhi sorridenti di ragazzo innamorato. E lei fingeva insofferenza e ostentava caratterino, ma poi ricambiava eccome. 
Per lei, quindi, del '900 è rimasto il lato pianeggiante. Concentrato sugli affetti.  Le sorelle: zia Pina a Palermo, con tre figli maschi e una femmina splendida,  allegra sarabanda di nipoti e cugini che oggi si propaga generosamente, e zia Nora a Roma  con lei, ma malmaritata con l'arcigno zio Gino. È storia di casa che ogni volta che si preparava un piatto un po' speciale c'era da dare "un pezzo a zia Nora". Usanza che faceva imbizzarrire la golosità di nonno, cultore raffinato di avanzi (e non solo). E poi le cugine, le ziette di cui ho già parlato. I legami fortissimi con la Sicilia e soprattutto con Palermo. Mai l'ho sentita parlare della guerra, se non per raccontare allegramente come si stava ammucchiati nell'appartamento di corso Trieste con i cugini sfollati.
E ciò nonostante non ho mai visto mia nonna fare la spesa o cucinare. Lei, poi, personalmente si sarebbe nutrita solo di gelato, del quale era vera appassionata. Mica come nonno sempre affamato e rusticamente onnivoro. 
Nonna Maria detestava  gli insetti. "Giannetto ci sono i vespiglioni" strillava di sera in campagna e si metteva il tovagliolo in testa per correre dentro casa incolume.  Al villino, una come lei si trovava  stretta tra pensieri e contadini.  Lei adorava la città, vedere gente, le comodità. La quiete bucolica  non le si addiceva, i libri non erano i suoi migliori amici e non era laboriosa nei ricami e altri passatempi beneducati. Così si circondava di sorelle, cugine, cuginette, figli, nipoti. E in ogni caso, sopportava qualche settimana di isolamento estivo poi cominciava a sbuffare e a "sentire freddo". Il primo temporale di settembre era la scusa perfetta per tornare a Roma. Anche lampi e tuoni erano tra gli elementi della sua fragilità, ironica e consapevole. 


Come prima nipote in assoluto, io godevo di un certo status e parecchi privilegi. Con i nonni sono andata in viaggio svariate volte. Le mie assenze venivano fatte digerire a mio fratello come operazioni di appendicite. Così, già grande, lui una volta se ne uscì in un contesto improprio convinto che l'appendice ricrescesse e potesse/dovesse essere asportata più e più volte. Un po' come si tagliano i capelli...
Con loro ho fatto il mio primo viaggio all'estero, a dieci anni. Siamo andati in Spagna, con zia Pina (numero due) . E poi Palermo e Mondello. E mi portavano con loro a visitare le ziette in qualche Fiuggi o Chianciano. Ogni volta una avventura. Tutte funestate appena appena da una attenzione spropositata per la mia inesistente cagionevolezza. 
Nonna era sempre disponibile, aveva un approccio buono alla vita. Come la vita era stata buona con lei. Non era ossessionata dalla sua bellezza, però. Faceva spallucce alle rughe, che accettava con noncuranza. 
Certo, non era una nonna tradizionale. Tra le meraviglie che offriva un pomeriggio con lei, oltre alle interminabili canaste di cui ho già parlato,  poteva esserci l'apertura dello scrigno dei gioielli. Ma lo scrigno in sè era già un capolavoro. Una cassetta di quelle che un regista potrebbe usare per il tesoro dei pirati. Viene dall'Africa sicuramente. NordAfrica direi. Intarsiata di avorio, madreperla e legno pregiato, adesso se ne sta sul mio comò e spesso è la mia gatta ad abbracciarla. Nonna tirava fuori una cosa per volta. E con essa la storia della sua vita. Le perle lunghe messe quella volta che il re riceveva a Napoli. L'ambra africana indossata con un certo vestito nero per la cena sulla nave ammiraglia. Il bracciale  alto dieci centimetri, argento con magiche pietre verde mare. E poi il pendente di brillanti regalato per la nascita del primo figlio. Insomma, la bacchetta magica della vita. 


Nonna Maria è svanita prima di morire. Lei che aveva sul naso una minuscola cicatrice tonda come una puntura di spillo e pensava che da li sarebbe penetrato il temibile cancro che l'avrebbe uccisa, si è trovata con il cervello evaporato. Nonno Giannetto le ha fatto da padre e da madre negli ultimi anni, tenendola sempre per mano. Così come aveva sempre fatto da marito. 



mercoledì 20 agosto 2014

Il mondo di ieri - Le ziette


Zia Maria, l'unica della quale si hanno fotografie 

Le ziette erano tre, zia Maria, zia Anna e Giuseppina, che guai a chiamarla zia. Lei, unica sposata, era la più defilata, sempre vestita di nero, quanto le altre due erano eleganti e colorate, portava il peso di un marito bello e gaglioffo che prima sperperò il patrimonio al gioco e poi, nella più pura tradizione letteraria, si sparò. Lei ha passato tutto il resto della sua vita a rimpiangerlo.
Zia Anna era la numero due. Gregaria e spalla perfetta alla sorella maggiore, zia Maria, appunto. Di lei ricordo il viso bruttino e intelligente, il sorriso ironico e mesto con il quale assecondava la sorella, i ricami interminabili e fastosi, massima manifestazione di indipendenza e primazia.
Carattere di ferro, zia Maria, perfettamente individuabile in un corpo alto e minuto allo stesso tempo, capelli bianchi di parrucchiere, che per essere in perfetta forma la obbligavano a dormire sempre e solo supina. I suoi capelli erano di onde languide, mentre zia Anna si accaniva con ricciolini stretti stretti di permanente. Zia Maria era primogenita e prima attrice sempre. Volto fine, aristocratico, che nemmeno gli anni si erano permessi di sfigurare. Aveva continue coliche renali, ma proprio continue, ma lei imbrigliava nella sua volontà e mai a quei reni scatenati ha dato per vinta una sola gita, una sola partita a canasta. Accennava qualche smorfia e finiva li. Certo, l'altro lato della medaglia portava coliche brandite come alibi per scansare le inopportunità. Famose le zucchine lesse che “mi fanno ddanno”, sospirava preferendo al pericoloso cibo verde, una cassata, il gelo di mellone e altre golosità. 
Siciliane, come tutta la famiglia, le ziette vivevano a Palermo in un palazzo dietro a Casa Professa. Servite e riverite da Vitina e Vicia, due governanti di sconfinata pazienza e immortale sense of humour. E sostenute da un patrimonio, diciamo, cospicuo. Tradunt che Luchino Visconti abbia chiesto il salone per girare la scena del ballo del Gattopardo e zia Maria abbia liquidato la proposta con un gesto della mano e la lapidaria osservazione: “mi siddia”. (Trad. mi secca). E, in effetti, in quel salone il pianoforte a coda, visto dall'altro lato,  appariva in miniatura. Quando sono andata a Palermo, le ziette mi hanno assegnato la stanza dell'alcova, giusto attaccata al salone. E io passavo la notte ad ascoltare i rumori, in una sorta di 'agorafobia traslata'. 
Le ziette usavano trascorrere almeno quattro mesi di villeggiatura tra Roma, a casa nostra, Fiuggi e Chianciano, dove si piazzavano in lussuosi alberghi a 'fare le cure'. Senza trascurare grandi e piccole mondanità locali. E per questo, avevano bisogno di una quantità stupefacente di bauli e valigie che si riversavano prepotentissimi nel nostro ingresso verso fine maggio e da li dilagavano, lenti, silenziosi e implacabili, per tutta la casa, occupando ogni spazio possibile. 


Ricordo i loro soggiorni a casa nostra come un continuo incubo, costellato di episodi esilaranti. La vita della famiglia veniva rivoluzionata. A cominciare dal bagno. In casa ne avevamo tre, uno in camera dei miei genitori, uno in camera della domestica, uno per me e mio fratello. Situazione più che accettabile, direi. Ma l'arrivo di zia Maria e zia Anna, devastava l'equilibrio. Le due, infatti, si infilavano proditoriamente nel nostro bagno verso le 6.30 del mattino e ci si barricavano  fino verso le 9.30. Abbondantemente dopo l'inizio della scuola, dunque. A nulla servivano richieste, proteste, petizioni. Zia Maria sorrideva, annuiva e... Ignorava. Trovare quella porta chiusa e vedere il filo di luce sotto la porta, che indicava 'occupato', mi provocava veri attacchi isterici. E riuscire, qualche rara volta, a batterle sul tempo, era soddisfazione ineguagliabile. Faceva la giornata. 
Ma il meglio delle ziette si dispiegava in campagna. Al villino e poi nella casa cosiddetta 'nuova'. Li il tempo a disposizione era da vendere e zia Maria adorava ricevere e cucinare. O meglio, dirigere la cucina. Nella quale venivano arruolati tutti gli adulti e i nipoti in età appena accettabile, oltre agli aiuti domestici qualificati. E spesso sopraffatti. 
Già perché zia Maria progettava su larga scala. Se si faceva la cassata, se ne facevano almeno 20. Senza esagerare. Dunque, 20 pan di Spagna, chili di ricotta dolce con cioccolato e via a seguire. E tutto doveva essere fatto a mano, senza aiuto di elettrodomestici e altre diavolerie moderne. Risultato: si passavano ore e ore a girare (mi raccomando, sempre nello stesso verso) intrugli vari, pregando che non impazzissero, a tagliare, sminuzzare, sciogliere... La tana di un alchimista. In più, la famiglia Anzon era venuta in Sicilia durante la (brevissima) dominazione inglese del '700 e le zie Marie precedenti (riunite in una sorta di cavallinitá aristotelica) avevano trascritto le ricette delle prelibatezze locali in once, libbre e le varie unità di misura locali. La ’traduzione ' in sistema metrico decimale aveva comportato dosi in numeri 'eccentrici'. Come 23.5 grammi di questo, 78.09 grammi di quello, unito a 0.47 ml di liquido. Zia Maria non permetteva sgarri o approssimazioni. Così era scritto. Così doveva essere. 
Restano indimenticabili tutte le superfici piane di casa ricoperte di cassate o di gelo di mellone. Per il quale si doveva cominciare due giorni prima, mettendo in infusione i gelsomini in acqua. Dopo aver trovato una pianta di gelsomini fiorita, naturalmente. Senza quella, la ricetta non poteva nemmeno essere presa in considerazione. E poi, le confezioni per i parenti fino al sesto grado e tutti gli amici. Che venivano tormentati finché, sfiniti, non venivano a prendere il loro pacchetto gastronomico. 
Altro must dell'estate era la macedonia. Normale, no? No. La nostra doveva essere a pallini. Zia Maria aveva comprato un attrezzo, all'epoca assai raro, per scavare la frutta e farne palline tutte della stessa dimensione, per la macedonia. E pazienza, per la quantità di frutta sacrificata sull'altare dell'estetica. 


Terzo elemento estivo, la partita a canasta. Senza soldi. Zia Maria e zia Anna giocavano sempre.
Giuseppina, no. Non credo che vedesse di buon occhio le carte, dopo il suicidio del marito. Ma le altre due erano, direi, compulsive. La canasta era un must del pomeriggio in campagna. Passatempo al femminile. Tutte venivano coinvolte. Anche io, che seduta nemmeno toccavo con i piedi per terra, scartavo pinelle come una professionista. Ricordo quei mucchi enormi di carte, fatti di tre o più mazzi, con i ghirigori azzurri o rosa sul retro. Mai più presa una carta in mano dopo quella stagione.  
Come si conviene a cotanta famiglia, le ziette avevano gioielli principeschi. Ogni tanto ne lasciavano cadere uno sulle dita,sul collo o sulle orecchie di una di noi. Per loro, i maschi di casa contavano poco più (o meno) di zero. Per il mio matrimonio zia Maria (zia Anna era già morta, credo) mi ha regalato una spilla che si superava in sempre maggiori preziosità: da semplice barretta con brillantini a sontuoso mosaico intessuto di piccoli zaffiri e brillanti, con un intreccio di ganci e anellini a incastro. Chissà se i ladri che l'hanno presa ne hanno capito l'ingegneria. 
E come in tutte le famiglie siciliane di un certo rispetto, anche gli Anzon avevano uno scandalo al sole. Mia madre non lo sa, “allora di questo non si parlava”, ma una accusa sul lavoro. Il padre delle ziette venne coinvolto in qualche brutta storia, lui grande capo del Banco di Sicilia. Pochi anni bui, pare, e poi il riscatto, la riabilitazione con somme scuse. E pensioni-risarcimento morale/materiale  da favola per le ziette. Che se le sono godute fino all'ultima goccia. Però, purtroppo, non sono riuscita a trovare traccia in rete di questa vicenda primi '900. E l'omertà familiare di allora si è fusa con il naturale svolgersi delle generazioni. Così, finché non avrò tempo e voglia di fare ricerche storiche, il punto interrogativo su cosa sia successo davvero, resta. 

lunedì 18 agosto 2014

Piccole industrie stagionali crescono





Che poi la notorietà gliel'ha data tutta Alfano. Loro se ne stavano su spiagge e dintorni, camminando instancabili sulla sabbia del mare nostrum come se fossero nei loro deserti nativi. I cosiddetti vu cumprá sono parte integrante del panorama estivo, soprattutto marino. Talvolta sono un po' fastidiosi, non voglio negarlo, e tuttavia fanno il loro faticosissimo lavoro. Un lavoro. In nero, spesso, d'accordo. Ultimo granello di una lunga catena di illegalità per lo più italiana. Facile eccitare l'istinto contro il pesce piccolo. Ha pure un look diverso, si può additare. 
Al contrario, devo dire che le storie che raccontano questi lavoratori da spiaggia sono sempre più originali e articolate. Basta con la frusta trafila dell'immigrato sopravvissuto al barcone. Generalizzazioni da ministro dell'Interno... 
Il vu cumprá di seconda (o terza?) generazione va sul sofisticato. Intanto, difficile che si metta a sciorinare mercanzia senza 'il preambolo'. Lui gioca tutto su quello. Uno spaccato di vita, sogni, futuro, prospettive. Lo stile del racconto è personale, secco o verboso. Raro, rarissimo il tono lamentoso. Hanno capito, i nostri ospiti spiaggiati, che non va più. Funziona meglio il connubio teatro/ merce valida.
“Sono uno studente pakistano, sono in Italia da pochi mesi e sto imparando la vostra lingua”, mi approccia uno di loro. Vestito come un giovane qualunque, in qualunque nazione, ha solo uno zainetto di piccola taglia. “Lei capisce, prosegue, non solo studio, ma anche devo farlo in un'altra lingua. Si rende certamente conto, signora, delle difficoltà che devo affrontare, tra vivere in un paese straniero e mantenermi. Non voglio abusare del suo tempo, non sono un venditore di mestiere, lo faccio per arrotondare un po'...”. 
E passa una donna africana, vestita in modo tradizionale, offre ceste intrecciate. Parla di lavoro, di impresa da far decollare, figli all'asilo. Qui. Niente strappalacrime. Lo stesso l'indiano tatuatore. Si inchina come espressione di cultura non di piaggeria e svolge il suo involto di vita prima del catalogo. Il progetto della bottega prima dell 'henné totalmente naturale che usa, i disegni che hanno significato e storia dopo l'orgoglio di rilasciare scontrino, fa valere professionalità per il binomio pelle-tonalità del tatuaggio. 


La mia amica Angela ha notato la stessa tendenza. Mi fotografa la sua spiaggia: c'è  la signora che viene dal Senegal e vende vestitini. E' in Italia grazie al ricongiungimento con il fratello che sta in Francia e con Shenghen è venuta a Roma. Vive alla Magliana con il marito mentre i due figli stanno in Senegal con i nonni. Il marito vende al Circeo e lei a Sabaudia. Indossa bellissimi abiti africani. Non invade mai. Angela rinnova la conoscenza di anno in anno. E la vita privata si intreccia in amicizia, ormai. Oltre i vestitini. 
Tra i suoi ombrelloni c'è anche il senegalese che vende libri, fiabe africane per bambini. Che adora i bambini perché gli ricordano i suoi che stanno sempre in Senegal e ci parla quasi tutte le sere tramite skype perché gli mancano moltissimo ( e lo diceva con le lacrime agli occhi). Lui ha lavorato come metalmeccanico e carpentiere. Poi con la crisi ha perso tutto. Ha così ripiegato sull'editoria di strada ed ha aperto la partita Iva. Vuole fare tutto regolare perché non vuole andare in galera, dice, proprio perché tiene troppo ai suoi figli. A Roma vende vicino al tribunale.
Nuovi imprenditori on the beach si fanno avanti, dunque. 
Ma nel quadro si intrufola il ragazzino nordafricano che vende i suoi asciugamani e pareo. Non arriva a sedici anni. Parla con un curioso accento francese. Non si avvicina nemmeno, marcia sulla battigia. Lo devi chiamare, perché è timido e intenerisce. Si vergogna. Non vuole trattare per nessuna ragione. Non è capace. Ma quando capisce che comprerai, si apre in un sorriso strepitoso. Ecco, lui, il più giovane, il più sprovveduto, sembra davvero uscito dal passato, ancora nelle grinfie degli orchi. 
Ecco, penso che dovremmo combattere gli orchi e stimare gli imprenditori. 

lunedì 11 agosto 2014

Il mondo di ieri - Anna, la cuoca



Un post piccolo piccolo per rendere omaggio a Anna, la cuoca dei miei nonni, che io ricordo appena. Non so bene, quindi, se gli aneddoti che ho fissati ,sono miei o indotti. Comunque ce l'ho in mente  proprio come in questa foto. A parte che, secondo me, in cucina indossava una cuffietta o simili. 
Di sicuro me la ricordo il giorno che, tornati a Roma dalle vacanze, scoprimmo la casa infestata dalle pulci. Davvero impressionante. Ma poiché la colpa era dell'amato boxer Blitz, Anna non protesto' minimamente, ma si mise a disinfestare. Un rarissimo caso. Però, Blitz, che viveva sotto il grande lavello di marmo in cucina, poco dopo fu allontanato. 
Anna cucinava e cucinava. D'altronde, era cuoca...  E di certo non puliva. Famosa per alcune caratteristiche   che sono rimaste nel lessico e nelle leggende di famiglia. Per esempio, le pietanze che 'non scompensano', cioè non bastano mai. Oppure la ultraterrena capacità di  capire se un cibo sul fuoco era salato o sciapo solo sentendone l'odore. Totalmente analfabeta, le ricette si traducevano in cibo solo a occhio, perfino piatti elaborati come i tortellini nel vol-au-vent. 
Ipocondriaca doc, Anna teneva sul ripiano della cucina tre farmaci che riteneva 'salvavita': camomilla, aspirina e valeriana. Mio zio Carlandrea, medico, in casi di gravissima emergenza, le dava la vitamina C, provocando guarigioni miracolose e istantanee. Quando si dice l'effetto placebo. 
Epiche le liti tra Anna e Fraulein. Le due non si sopportavano. Comprensibile. L'una marchigiana di cultura contadina e ruspante, l'altra di radici teutoniche e abituata a viaggiare tra letteratura e principesse. Mondi destinati a cozzare. Dunque, Anna le urlava 'quaddruppeta' (chissà perché), ricevendo in cambio il sanguinoso 'simia'. Offese mortali, che hanno condiviso, credo, per una trentina di anni. 

P.s. Di questo post devo ringraziare mia cugina Matilde Incorpora che a Palermo ha trovato la foto e ha fatto riaffiorare un sacco di sommerso. 

sabato 2 agosto 2014

Il mondo di ieri - Fraulein

Fraulein


Io non l'ho mai saputo come si chiamasse Fraulein di vero nome. A mia discolpa posso dire che è morta quando avevo tre anni, ma non credo che nessuno in famiglia l'abbia mai chiamata altro che Fraulein. Era l'istitutrice di mia mamma e dei miei zii. Rimasta 'en famille', perché, diceva mia nonna, non aveva nessuno, non si poteva mettere su una strada. E così, da quando mia madre era diventata adulta, fino alla mia nascita, Fraulein ha passeggiato per il mondo e casa nostra. Lieve e silenziosa. Austriaca, tramandano le cronache di famiglia. 
Personalmente la ricordo in modo vago. Alta, bionda. O forse bianca. Una donna dolce, sfumata. Quasi un ectoplasma, alla mia memoria. Una di quelle figure che sembra sempre stiano voltando l'angolo per sparire. 


Attraverso la memoria di mia madre, esce invece un ritratto di donna assai anti convenzionale. Erminia Hetz, austriaca nemmeno per sogno, di Monaco di Baviera. Una vita avventurosa. Delle sue origini non si sa nulla. Pare sola al mondo all'inizio del '900. Dama di compagnia della principessa Margherita di Savoia, lascia la corte quando la suddetta Margherita viene coinvolta (travolta?) dallo scandalo per una relazione con Francesco Paolo Tosti, tenore di disinvolta voce (e non solo, a quanto pare), detto Ciccio, che poi preferì espatriare in Inghilterra. 
Evidentemente ben fornita di argento, Fraulein non ancora Fraulein, viaggia in carrozza per l'Italia e, in Sicilia, viene colta dalla guerra e in quanto tedesca, nel 1915 viene internata a Misilmeri. Vita costellata di principesse, la sua, visto che da quel posto non degno di lei la tira fuori la principessa di Villafranca, madre di Manina (sic), la cui storia non pare degna della memoria di internet e dunque per sempre consegnata all'oblio, per farne la sua istitutrice. 
Cresciuta la bimba, Fraulein si rifugia dalle monache a Palermo. Li incontra mia nonna e la mia bisnonna, in visita per trovare una panacea all'insopportabile vivacità del mio zio primogenito. Narra la leggenda che il viziatissimo Carlandrea, terrore di tutte le bambinaie, in braccio a lei istantaneamente si calmò. Assunta dalla famiglia. Che la portò anche in Africa (forse in Libia?) per accudire la creatura mentre gli uomini di casa facevano i generali e le donne le coloniali, mogli di generali. 
Gli aneddoti che racconta mia madre sul periodo successivo sono disparati. Riservatissima, attentissima, scrupolosissima, aveva i suoi lati scaleni. 


Fino all'ultimo giorno della sua vita ha fatto ginnastica in camera da letto prima di entrare 'in servizio'. Quando ero piccola io, pare si alzasse a ore antelucane per essere prontissima per me, quando mi fossi degnata di svegliarmi... Ma già con la generazione precedente era super professionale. Preoccupatissima della salute, se proprio del caso, la pacca sul sedere del malcapitato bambino era sempre perfettamente al centro delle natiche. Luogo privo di conseguenze sanitarie. Mai scappellotto, per carità, a rischio commozione cerebrale. Schiena? Pleurite assicurata. Un brufoletto era il primo sintomo del vaiolo. Insomma, un miracolo se non sono cresciuti tutti ipocondriaci doc. 
A forza di praticare principesse, fraulein aveva deciso che sotto un certo livello non si poteva scendere mai. Così, parrucchiere solo a piazza di Spagna, una volta a settimana e pedicure da quello che curava i piedi del Papa. 



Temutissima non era. Anzi, oggetto di scherzi dei bambini. Racconta la mamma che di pomeriggio spesso si assopiva lavorando a maglia e meccanicamente creava due (o più, a seconda del grado di stanchezza) talloni alle calze che stava sferruzzando. Divertimento massimo dei bambini era aspettare che la mostruosità fosse compiuta per svegliarla e additarla. 

   
Fraulein è morta a casa nostra, a oltre 80 anni, al villino. E' sepolta nel cimitero di Poggio Mirteto, ma non vicino alla famiglia come avrebbe meritato. No. Lei, luterana, è stata separata e messa 'al suo posto'. Lontana. Di nuovo sola. 

venerdì 1 agosto 2014

Il mondo di ieri - nonno Giannetto


Nella foto: in piedi il bisnonno Luigi e nonno Giannetto. Seduti: nonna Maria con Carlandrea e Leopoldo con ginocchio fasciato, mia mamma Teresa in braccio a sua nonna Teresina. Il setter Jack.



Perché non tutto vada perduto.



Quando arriva l'estate, il ricordo di mio nonno si fa più forte. Perché era d'estate che passavamo più tempo insieme. Al villino. Era rosso, del rosso-rosa delle case cantoniere di allora, a profili gialli. Il villino è sempre lì, solo che non è più nostro, ma degli zii che litigano per lui.  Ci passo davanti per andare alla casa 'nuova', nuova ancora dopo quaranta anni. Al villino ho passato lunghe (lunghissime) estati. Chiusa nel grande giardino vecchio stile, dove ogni pianta aveva una storia, dove l'orto rappresentava una avventura quasi quotidiana e la meraviglia di galli e galline giù, in fondo in fondo, a cogliere le uova e ascoltare i battibecchi. E il meglio era leggere sul gradino alto del portone.
Mio nonno si chiamava Giovanni, ma lo chiamavano tutti Giannetto. Era il terzo di tre maschi. Il primo, Carlandrea, ufficiale di Marina finito in guerra con il suo corpo e il suo onore. Gli intitolarono un incrociatore. Il secondo, Leopoldo, morì giovane di malattia. Per onorarli, mio nonno ripetè i nomi sui suoi due figli. E poi, arrivò mia madre, Teresa. 


Lo ricordo alto e imponente, nonno Giannetto. Un bel pancione, pure. Ma ben integrato in un corpo di sportivo. Non saprei dire se erano i miei occhi di bambina a ingigantire o lo fosse veramente. Dritto. Aveva una ferita da arma da fuoco su una coscia. Una specie di avvallamento. Un colpo a caccia, raccontava. Ma in via generale, glissava. 
A lui devo il mio ancora incondizionato amore per le colazioni salate. Ho bene in mente e negli occhi una mattina di agosto che uscì in giardino con  pane e frittata per me. E mi conquistò a questa delizia. E un'altra volta, pane e prosciutto. Di quello tagliato a mano con il grasso bianco e spesso. Fu lui a illustrarmi la gioia di quel grasso che faceva orrore alla maggior parte di donne e bambini. Ovvio che lui in cucina mettesse bocca parecchio, ma mai le mani. Con Anna, la cuoca, retaggio vivente di un passato allora ancora prossimo, discuteva a lungo su manicaretti e dettagli. Aveva in testa esattamente il quadro degli avanzi e dei ripiani di dispensa e frigorifero. E guai a 'dimenticare' di riportare qualcosa in tavola. “Ma non ci sarebbe rimasto un po' di ....”, era la frase chiave. 
Mia nonna non credo di averla mai vista in cucina, se non negli ultimi anni della sua vita, quando anche i retaggi erano svaniti. Di lei resta memorabile il budino di latte, la cui ricetta ho molto cercato e mai raggiunto. 
Ricordo mio nonno in giardino, a raccontarmi storie di famiglia. Con lui ho visto le prime lucciole. Li mi ha insegnato i rudimenti della botanica. Le erbe aromatiche le 'so' tutte grazie a lui. Di alberi e fiori anche distinguo più della maggior parte per i suoi insegnamenti. Mi affascinava in particolare una parete di cactus che fioriva un solo giorno. L'aveva portato il bisnonno dall'Africa. Adesso lo so che quasi tutte le piante grasse regalano fuori assai effimeri, ma allora pareva magico riuscire ad essere lì al momento giusto. E il vialetto di bosso, sempre in ombra, dove, dopo gli acquazzoni estivi (allora assai più rari e concentrati nella fine di agosto di oggi) uscivano le lumache, alle quali si potevano toccare le corna per vederle ritrarsi. Me ne comprò, in quello stesso periodo, una di pasta di mandorle a Palermo. Non ho voluto mangiarla per nessuna ragione al mondo. 
E poi, lui che, ingegnere, organizzava cervellotici impianti elettrici per cenare in giardino. E allora erano fili che si arzigogolavano uno all'altro, liane lanciate sul tiglio o sugli elci, improbabili lampade tese, si fa per dire, e sospese a metà (vabbe', più o meno a metà) sul tavolo. Per anni, nella casa di Roma, mio nonno ha tentato di far attecchire un campanello sotto al tavolo da pranzo per chiamare “la servitù”. Non ricordo una volta che abbia funzionato. A memoria imperitura resta in mezzo alla stanza, sotto al tappeto e nel marmo, una piccola placca di ottone che copre il velleitario buco per il campanello. 
Durante i lunghissimi soggiorni in campagna, mio nonno almeno parte della giornata la trascorreva nel suo studio. Una stanza d'angolo a piano terra davanti alla quale noi bambini non dovevamo sostare nè gridare. Lo studio era ricoperto di librerie a vetri. Tutti i volumi erano catalogati con precisione. Avere un libro da leggere era praticamente impossibile. Per noi, ma soprattutto per me, che ero la più grande e l'appassionata lettrice, c'erano i libri della soffitta. Rilegati di nero marmorizzato, con gli angoli grigio-beige, la sfumatura non la identifico più. In quei libri sui quali i topi facevano bagordi quando noi non c'eravamo, ho incontrato  Sandokan e la perla di Labuan, il fedele Yanez,  i tigrotti di Mompracem e la mia inesauribile passione per i viaggi.
Quando non progettava nuove iniziative, come la lottizzazione sulla montagna, ville nascoste nel verde, come va di moda oggi, ma allora una rivoluzione, destinate  a portare benessere al minuscolo villaggio, invece ingrato e refrattario, nonno Giannetto riceveva mezzadri e fittavoli. Oppure discuteva con Stefano, l'uomo che veniva a raccogliere il miele dalle arnie. Evento che prevedeva la carcerazione di noi bambini in casa, insieme a mia nonna, l'unica davvero terrorizzata da api, vespe, vespiglioni e perfino delle incessanti cicale. 
Il matrimonio dei miei nonni era irrobustito dai capricci della bellissima moglie e dalla adorazione del marito. Tutti e due assumevano una aria sognante (lui mascherava burbero, lei impaziente) quando, spesso, raccontavano del corteggiamento. Mio nonno giovane ufficiale di stanza a Palermo che passava a cavallo sotto le finestre della sofisticata donzella. Era dell' oro. Fino all'ultimo giorno hanno litigato lievi. Mia nonna minacciava divorzi impossibili e improbabili malori più o meno mortali. Anche suicidi, se del caso. Lui le sorrideva e diceva, “dai bionda...”. Oppure “ma Maria mia...”. Massimo dell' irritazione.


Mio nonno era della Lazio. Ed era fascista. Sulla prima opzione l'ho seguito e difeso. Era l'unico in una famiglia di romanisti. Ci voleva qualcuno dalla sua parte. Ero io. Sul fascismo no, non me la sono sentita. Ma non era argomento per piccoli e quindi una cosa della quale si parlava poco. E non mi sono dovuta proprio schierare. Ma da adulta, mi guardava mai giudicante, mentre mi imbevevo nella passione per Berlinguer. Lui fu uno di quelli che, finita la guerra, non si cambiò disinvoltamente d'abito, ma restò nei suoi scomodissimi panni. Fu licenziato per aver rifiutato l'abiura. Si mise a fare il libero professionista. Come ingegnere costruì il porto di Salerno. Ho stampate in mente quelle estati con la vista luccicante sul golfo. E le cene al ristorante vico a neve, dove il cameriere spinava le mie adorate triglie e io gli allineavo altrettante spine sul bordo del piatto. 



Nonno Giannetto è morto a 94 anni. Mia nonna lo aveva lasciato un paio di anni prima definitivamente, un po' prima con lo spirito. Mia figlia Flaminia, nonna Maria non l'ha mai percepita. Quando è nata, lei era già in un mondo a parte. Un giorno di ferragosto del '93, però, Flaminia aveva un mese, sotto il pergolato del villino, ha detto “qualcuno piange”. E effettivamente, Flaminia ci stava facendo vedere i sorci verdi. Nonno, invece, è stato bisnonno per un paio d'anni. Era praticamente immobilizzato. Guardava Flaminia con una disperazione dolce. Sempre un po' da lontano. Un uomo che i bambini piccoli li ha frequentati solo con un filtro femminile. Ma aveva sempre una battuta sorridente. In questi giorni è stato l'anniversario della sua morte, diciannove anni fa. Mi spiace di non avergliela portata più di frequente. Mi spiace di non aver dato a tutti e due più ricordi insieme. Non posso rimediare.