giovedì 5 marzo 2015

La Fiom, Twitter ed io


     Talvolta 

Piccola storia romana non ancora a lieto fine, ma forse sì. Uno civile. Succede che io abito nel palazzo accanto a quello della Fiom. L'ho visto nascere, il palazzo, quando la Fiom era ancora in mente dei. Ha preso il posto di un villino primi '900 e mi ha tolto luce e bellezza da quella che allora era la mia stanza. Ma sono passati decenni e, laicamente, li ho perdonati. Non sapevano quel che facevano. O forse sì. 
Tuttavia, nel tempo, la Fiom e i suoi compagni (Fim e Uilm per la precisione), eredi della Federazione dei metalmeccanici, hanno esagerato. Ogni mattina i cassonetti su corso Trieste, che stazionano proprio tra il mio palazzo e il loro, rigurgitavano degli scarti di ogni ben di dio. Dalle cassette di frutta e verdura della mensa, a sacchi di spazzatura cartacea e non, talvolta perfino vecchi pc o tastiere. E quando dico rigurgitavano è letterale. I rifiuti si allargavano sul marciapiede, bengodi per topi, gabbiani e bande di raccoglitori con carrello del supermercato come valigia. Con paragone moderno, direi metodici seguaci ante litteram della filosofia hooligan del Feyenoord. Che poi, a ben guardare, i cassonetti sono vuoti e dunque non si capisce la fatica fisica e/o mentale di aprirli e metterci dentro i rifiuti come fanno tutti.

    Prima quasi sempre 

Insomma, anche no. Landini, proprio tu, no! Così, prima che Landini scendesse in politica o quel che è e sarà, ho cominciato a twittare ogni giorno le foto dei cassonetti e dei loro dintorni a incorniciare il palazzo Fiom indirizzandole a loro. Dopo poche segnalazioni, forse un paio di settimane,  devo annunciare che i rifiuti sono pressoché scomparsi. Poi sono tornati anche se non tutti i giorni e di minore mole. Corso Trieste, dopo anni, è tornato più o meno pulito. O almeno decente.  Accorgersi di creare un disagio alla comunità  e risolverlo dovrebbe essere di sinistra. E, a essere sinceri, è tanto che non mi imbatto in comportamenti -non parole, che quelle sono gratis e si sprecano- di sinistra. 

lunedì 2 marzo 2015

Gli acchiappa allocchi




Non c'è viaggio senza sòla. Intesa come fregatura. Una almeno se ne prende sempre. E, se contenuta, va accettata con filosofia. Così è capitato a noi a Pechino. 
Con grande disdoro, devo ammettere che siamo cadute in una trappola per turisti. Anzi due. Doveva essere il karma della giornata. 
Uscite dalla Città proibita abbiamo deciso di mangiare un boccone. Siamo entrate in un ristorante non proprio appiccicato all'uscita perché -furbe- volevamo evitare posti troppo 'contaminati'. Il locale era pieno, tanto che ci hanno fatto salire al secondo piano. Ottimo segno, no? No. Nella sala semi deserta, spicca una donna un po' anziana che dorme a un tavolo. Fa anche freddino. Però, vabbè, decidiamo di ignorare i segnali infausti e raffazzoniamo un ordine, indicando su un menù fotografico. Ma, sia un cuoco malato o licenziato, sia che ci trovassimo di fronte a qualche mago del Photoshop, la realtà si è presentata nella sua luce più cruda. Assai diverso il cibo dalla sua rappresentazione. Arrivano due sbobbe inaccettabili. Spaghetti di riso grandi come tubi, mollicci, totalmente sconditi. A parte, ciotoline con salse direi provocatorie nella loro palese non commestibilita. Proviamo a farcene una ragione, ma no, non può funzionare. Così lasciamo tutto, pagandolo ovviamente, e andiamo via. Ci era anche passata la fame. Una situazione perfetta per dimagrire involontariamente. 
Frustrate nello stomaco, era d'obbligo un divertimento. Così, invece di sgambettare per i cinque-sei kilometri fino alle Due torri, decidiamo di provare l'ebbrezza del rickshaw. Tanto, almeno una volta andava preso comunque. Ci si avvicina un vecchietto in gamba che si propone con il suo trabiccolo di velluto rosso. 



Prima di salire chiediamo il prezzo, lui fa il segno tre con le dita. Pensiamo, saranno 30 yuan, più che ragionevole. Così saliamo e il simpatico omino vestito come Mao si mette ai pedali. Abbondamentemente aiutato da un motorino elettrico, ci porta per una decina di minuti. Si gira ogni poco per mimare la sovrabbondante fatica. Una pantomima a metà tra Paperino e Stanlio&Ollio. Insomma, 'non' sfrecciamo alla meta tra vicoli e vicoletti, evitando con accuratezza le strade principali. Bene, queste stradine altrimenti non le avremmo viste mai, penso tra me. Il sosia di Mao si ferma in un angolo appartato, le torri non si avvistano. Scende e ci fa segno che sono proprio dietro l'angolo. Vorrei fargli una foto con Flaminia, ma rifiuta deciso. Vado per pagare e scopro che il suo prezzo era non 30 ma 300 yuan. Più o meno come sei notti di hotel. Un pasto medio costa 40. Per dire. Mi inferocisco. Lui sfodera un cartoncino stampato (da lui medesimo) con i prezzi fissati (sempre da lui) per dimostrarmi di avere ragione. Il tempo di mettere insieme i dettagli, la viuzza laterale, il no alla foto, il gesto 'tre' ora chiaramente ambiguo, il biglietto con il tariffario arbitrario e io minaccio la polizia. Lui questiona, io resto ferma sulle gambe e io gli do 100 yuan (sempre troppissimi). Vorrebbe di più, ripeto di andare subito insieme alla polizia. Si dilegua, lasciando dietro di sé sbuffi di delusione e stupore. L'unico che abbia tentato - e in parte c'è anche riuscito- di truffarci. 
Solo la sera, in hotel, abbiamo letto un cartello nel quale si metteva in guardia proprio da questi rickshaw acchiappa allocchi. Too late... 


Occhi sulla città proibita

Poche parole, questa volta. Solo un po' di foto per raccontare la Città proibita come l'ho vista io. I marmi, le scale, il cielo, lo skyline modernissimo che incrocia un passato rarefatto nella sua ricerca di perfezione. 


 




  

   



domenica 1 marzo 2015

Calibri imperiali





Scrivo dopo molto tempo della Città proibita, fiore all'occhiello di Pechino, cuore della città da 600 e più anni, proprio di fronte alla piazza Tienanmen. È stata una giornata brutta e scontrosa, fredda e bluastra che ha affaticato l'entusiasmo. E poi ci vuole tempo per metabolizzare. 
La Citta proibita è però bellissima e non ha colpa alcuna. Si inanella, palazzo dietro palazzo, piazza dentro piazza e sfodera calma e saggezza. Colpisce la totale mancanza di vegetazione, se non in pochi 'spazi appositi', giardini mimetizzati nella geometria ripetitiva delle sequenze. 
A dare vita a questa monumentale opera d'arte multipla sono le luci e colori. È la possibilità di sbirciare dentro le stanze ormai disabitate ma sempre sfarzose di imperatori e concubine. La Cina antica e le cineserie disegnano vite e ritmi d'altri tempi, una cultura lontana manda lampi e ammicca vivida e sfuggente.


Bighellonare tra questi viali un po' cristallizzati fa bene e riflettere, sebbene, diciamolo, il freddo non aiuti. Ma l'immaginazione si gingilla con i nomi di palazzi e quartieri, molto più che toponomastica, una filosofia di vita. Porta del Volere divino, piazza dell'Armonia suprema, porta dell'Eminenza militare, Palazzo della Purezza celeste e Palazzo della Tranquillità terrestre... Vuoi mettere con via Nazionale e piazza Venezia. Altro calibro imperiale, ammettiamolo... 
Vedi gli imperatori e la loro corte snodare giornate estive sugli scaloni istoriati e serrare quelle invernali intorno ai grandi bracieri.



 Il rosso lacca incornicia lo sfarzo controllato, l'armonia architettonica cristallizza una ricerca di quella interiore che non sappiamo se sia stata trovata mai. Come stava chi viveva qui? È riuscito a trovare la sua meta. Secoli di lavoro in progressione hanno portato qualcuno di loro a raggiungere saggezza ed equilibrio? Il sorriso interiore? Certo, quello che ho messo nel mio bagaglio dalla Citta proibita è almeno una scheggia di bellezza pura, un bagliore di filosofia (spicciola), la (effimera) consapevolezza della ricerca perpetua e universale. Uscire dalla quella porta finale è stato faticoso. Nonostante il clima sottilmente respingente, girovagavo ancora per afferrare un respiro passato in più. Strana sensazione, la Città proibita.