venerdì 1 agosto 2014

Il mondo di ieri - nonno Giannetto


Nella foto: in piedi il bisnonno Luigi e nonno Giannetto. Seduti: nonna Maria con Carlandrea e Leopoldo con ginocchio fasciato, mia mamma Teresa in braccio a sua nonna Teresina. Il setter Jack.



Perché non tutto vada perduto.



Quando arriva l'estate, il ricordo di mio nonno si fa più forte. Perché era d'estate che passavamo più tempo insieme. Al villino. Era rosso, del rosso-rosa delle case cantoniere di allora, a profili gialli. Il villino è sempre lì, solo che non è più nostro, ma degli zii che litigano per lui.  Ci passo davanti per andare alla casa 'nuova', nuova ancora dopo quaranta anni. Al villino ho passato lunghe (lunghissime) estati. Chiusa nel grande giardino vecchio stile, dove ogni pianta aveva una storia, dove l'orto rappresentava una avventura quasi quotidiana e la meraviglia di galli e galline giù, in fondo in fondo, a cogliere le uova e ascoltare i battibecchi. E il meglio era leggere sul gradino alto del portone.
Mio nonno si chiamava Giovanni, ma lo chiamavano tutti Giannetto. Era il terzo di tre maschi. Il primo, Carlandrea, ufficiale di Marina finito in guerra con il suo corpo e il suo onore. Gli intitolarono un incrociatore. Il secondo, Leopoldo, morì giovane di malattia. Per onorarli, mio nonno ripetè i nomi sui suoi due figli. E poi, arrivò mia madre, Teresa. 


Lo ricordo alto e imponente, nonno Giannetto. Un bel pancione, pure. Ma ben integrato in un corpo di sportivo. Non saprei dire se erano i miei occhi di bambina a ingigantire o lo fosse veramente. Dritto. Aveva una ferita da arma da fuoco su una coscia. Una specie di avvallamento. Un colpo a caccia, raccontava. Ma in via generale, glissava. 
A lui devo il mio ancora incondizionato amore per le colazioni salate. Ho bene in mente e negli occhi una mattina di agosto che uscì in giardino con  pane e frittata per me. E mi conquistò a questa delizia. E un'altra volta, pane e prosciutto. Di quello tagliato a mano con il grasso bianco e spesso. Fu lui a illustrarmi la gioia di quel grasso che faceva orrore alla maggior parte di donne e bambini. Ovvio che lui in cucina mettesse bocca parecchio, ma mai le mani. Con Anna, la cuoca, retaggio vivente di un passato allora ancora prossimo, discuteva a lungo su manicaretti e dettagli. Aveva in testa esattamente il quadro degli avanzi e dei ripiani di dispensa e frigorifero. E guai a 'dimenticare' di riportare qualcosa in tavola. “Ma non ci sarebbe rimasto un po' di ....”, era la frase chiave. 
Mia nonna non credo di averla mai vista in cucina, se non negli ultimi anni della sua vita, quando anche i retaggi erano svaniti. Di lei resta memorabile il budino di latte, la cui ricetta ho molto cercato e mai raggiunto. 
Ricordo mio nonno in giardino, a raccontarmi storie di famiglia. Con lui ho visto le prime lucciole. Li mi ha insegnato i rudimenti della botanica. Le erbe aromatiche le 'so' tutte grazie a lui. Di alberi e fiori anche distinguo più della maggior parte per i suoi insegnamenti. Mi affascinava in particolare una parete di cactus che fioriva un solo giorno. L'aveva portato il bisnonno dall'Africa. Adesso lo so che quasi tutte le piante grasse regalano fuori assai effimeri, ma allora pareva magico riuscire ad essere lì al momento giusto. E il vialetto di bosso, sempre in ombra, dove, dopo gli acquazzoni estivi (allora assai più rari e concentrati nella fine di agosto di oggi) uscivano le lumache, alle quali si potevano toccare le corna per vederle ritrarsi. Me ne comprò, in quello stesso periodo, una di pasta di mandorle a Palermo. Non ho voluto mangiarla per nessuna ragione al mondo. 
E poi, lui che, ingegnere, organizzava cervellotici impianti elettrici per cenare in giardino. E allora erano fili che si arzigogolavano uno all'altro, liane lanciate sul tiglio o sugli elci, improbabili lampade tese, si fa per dire, e sospese a metà (vabbe', più o meno a metà) sul tavolo. Per anni, nella casa di Roma, mio nonno ha tentato di far attecchire un campanello sotto al tavolo da pranzo per chiamare “la servitù”. Non ricordo una volta che abbia funzionato. A memoria imperitura resta in mezzo alla stanza, sotto al tappeto e nel marmo, una piccola placca di ottone che copre il velleitario buco per il campanello. 
Durante i lunghissimi soggiorni in campagna, mio nonno almeno parte della giornata la trascorreva nel suo studio. Una stanza d'angolo a piano terra davanti alla quale noi bambini non dovevamo sostare nè gridare. Lo studio era ricoperto di librerie a vetri. Tutti i volumi erano catalogati con precisione. Avere un libro da leggere era praticamente impossibile. Per noi, ma soprattutto per me, che ero la più grande e l'appassionata lettrice, c'erano i libri della soffitta. Rilegati di nero marmorizzato, con gli angoli grigio-beige, la sfumatura non la identifico più. In quei libri sui quali i topi facevano bagordi quando noi non c'eravamo, ho incontrato  Sandokan e la perla di Labuan, il fedele Yanez,  i tigrotti di Mompracem e la mia inesauribile passione per i viaggi.
Quando non progettava nuove iniziative, come la lottizzazione sulla montagna, ville nascoste nel verde, come va di moda oggi, ma allora una rivoluzione, destinate  a portare benessere al minuscolo villaggio, invece ingrato e refrattario, nonno Giannetto riceveva mezzadri e fittavoli. Oppure discuteva con Stefano, l'uomo che veniva a raccogliere il miele dalle arnie. Evento che prevedeva la carcerazione di noi bambini in casa, insieme a mia nonna, l'unica davvero terrorizzata da api, vespe, vespiglioni e perfino delle incessanti cicale. 
Il matrimonio dei miei nonni era irrobustito dai capricci della bellissima moglie e dalla adorazione del marito. Tutti e due assumevano una aria sognante (lui mascherava burbero, lei impaziente) quando, spesso, raccontavano del corteggiamento. Mio nonno giovane ufficiale di stanza a Palermo che passava a cavallo sotto le finestre della sofisticata donzella. Era dell' oro. Fino all'ultimo giorno hanno litigato lievi. Mia nonna minacciava divorzi impossibili e improbabili malori più o meno mortali. Anche suicidi, se del caso. Lui le sorrideva e diceva, “dai bionda...”. Oppure “ma Maria mia...”. Massimo dell' irritazione.


Mio nonno era della Lazio. Ed era fascista. Sulla prima opzione l'ho seguito e difeso. Era l'unico in una famiglia di romanisti. Ci voleva qualcuno dalla sua parte. Ero io. Sul fascismo no, non me la sono sentita. Ma non era argomento per piccoli e quindi una cosa della quale si parlava poco. E non mi sono dovuta proprio schierare. Ma da adulta, mi guardava mai giudicante, mentre mi imbevevo nella passione per Berlinguer. Lui fu uno di quelli che, finita la guerra, non si cambiò disinvoltamente d'abito, ma restò nei suoi scomodissimi panni. Fu licenziato per aver rifiutato l'abiura. Si mise a fare il libero professionista. Come ingegnere costruì il porto di Salerno. Ho stampate in mente quelle estati con la vista luccicante sul golfo. E le cene al ristorante vico a neve, dove il cameriere spinava le mie adorate triglie e io gli allineavo altrettante spine sul bordo del piatto. 



Nonno Giannetto è morto a 94 anni. Mia nonna lo aveva lasciato un paio di anni prima definitivamente, un po' prima con lo spirito. Mia figlia Flaminia, nonna Maria non l'ha mai percepita. Quando è nata, lei era già in un mondo a parte. Un giorno di ferragosto del '93, però, Flaminia aveva un mese, sotto il pergolato del villino, ha detto “qualcuno piange”. E effettivamente, Flaminia ci stava facendo vedere i sorci verdi. Nonno, invece, è stato bisnonno per un paio d'anni. Era praticamente immobilizzato. Guardava Flaminia con una disperazione dolce. Sempre un po' da lontano. Un uomo che i bambini piccoli li ha frequentati solo con un filtro femminile. Ma aveva sempre una battuta sorridente. In questi giorni è stato l'anniversario della sua morte, diciannove anni fa. Mi spiace di non avergliela portata più di frequente. Mi spiace di non aver dato a tutti e due più ricordi insieme. Non posso rimediare. 

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