lunedì 29 settembre 2014

Kazakhstan, tra Cartoonia e Gotham city




In Kazasthan sono stata in aprile 2011. Non per mia volontà. Inviata. Una esperienza che oggi considero esilarante. Allora, un po' meno. I collegamenti da e per l'Italia sono, diciamo, punitivi. Orari impossibili. Coincidenze fortuite. Così fortuite che il mio bagaglio, perso sulla prima tratta dell'andata è arrivato giusto in tempo per prendere la via del ritorno. E la coincidenza su Francoforte al ritorno l'ho persa. Nessuno si cura dei passeggeri da Astana. 
Il Kazakhstan ha un clima orribile, la più alta escursione termica stagionale del pianeta. Ad aprile l'aria è verde si taglia con il rompighiaccio. Atterrare ad Astana, la capitale, lascia una impressione almeno singolare. La città è un incrocio tra Cartoonia e Gotham city. Subito fuori dall'aeroporto colpiscono alberi, fontane e altri arredi urbani mascherati con cappottini coloratissimi e lucine brillanti sullo sfondo del cielo verde marziano. Solo l'ultimo giorno ho capito che erano vestiti a festa per le elezioni presidenziali. Perché ho visto gli omini scartare gli arredi a voto compiuto. 
Le strade sono larghe, spazzate a modino, lisce. Peccato che intorno non ci sia assolutamente nulla. O meglio, ci sono edifici creati dalle maggiori archistar mondiali, ma sentinelle qua e là, in mezzo al nulla, oppure a capannelli: centro commerciale, stadio, parco. Le opere sono monumentali, di un cattivo gusto sfarzoso e inarrivabile per le normali menti umane. Entrare, per esempio, in un centro commerciale provoca grande tristezza. Tutti i negozi sono aperti. I ristoranti fumano. Le scale mobili salgono e scendono. Ma dentro non c'è nessuno. I Kazachi sono troppo poveri per frequentare posti così. E per i turisti (turisti in Kazakhstan???) è impossibile fare acquisti, visto che nessuno accetta carte di credito o moneta diversa da quella locale. Non sono previsti cambiavalute. Peccato. Il nostro 'interprete', figura inquietante posta a nostra ombra, ha dovuto offrirci il pranzo dopo aver sbattuto su innumerevoli porte,  telematiche e non, determinatamente chiuse perfino a chi parla la lingua.


Io, senza vestiti di ricambio, ho setacciato negozi ostili e fuori mercato per decidere alla fine di lavare la sera, stendere sul termosifone e reindossare la mattina seguente. Di contro, i negozi per i locali sembrano tutti chiusi. Le vetrine non esistono. O meglio, sono foderate di cartone o stoffa. Un tentativo, forse, di isolare termica mente botteghe piene di spifferi. Ma l'impatto è quello di botteghe fallite e in disuso. L'atmosfera generale dimentica la cordialità. Sorrisi non se ne incontrano. Curiosità nemmeno.D'altra parte, questi poveri sudditi di Nazarbaiev oggettivamente hanno ben poco da rallegrarsi. Sono poveri, perché tutto il ben di dio che esce dal loro sottosuolo si disperde altrove. Più verso l'alto, direi. Libertà nemmeno a parlarne. Fondamentalmente sono furiosi. Ma non lo dicono.


   
La mia è stata una visita ufficiale. Così l'interprete sempre alle calcagna e i funzionari del ministero degli Esteri locale vigili e pronti a far evaporare ogni richiesta. Per esempio, un colloquio, intervista, due chiacchiere, una battuta, con la moglie di Nazarbaiev. All'uscita dal voto era a due metri da me. Altera, scolpita nel ghiaccio, abiti da stipendio medio di un anno, seguita da codazzo di segretari e collaboratori. Io l'ho fermata. Era così sorpresa che avessi osato rivolgerle la parola che mi ha anche risposto, rimandandomi però alla sua segretaria personale. Sono tutti impalliditi per la mia temerarietà. Il funzionario del ministero degli Esteri credo abbia pensato al suicidio. Sta di fatto che per tre giorni ho arrancato dietro a quella promessa, ma invano. Si era eretto un muro quasi visibile di 'più tardi, domani, forse'. Ho rimbalzato su questa gomma, diventata così impenetrabile che sono tornata in Italia con le pive nel sacco. Zarina elegantissima ma sempre un pelo fuori portata.  
In compenso un giorno ci hanno portato ad assaporare la steppa. Che è terribilmente solitaria. Chilometri e chilometri in mezzo al nulla, niente vegetazione, un giallo macchiato di neve, qualche agglomerato non direi urbano e nemmeno umano, casette di legno con gli spifferi a vista che uno si chiede come possa sopravvivere chi sta li dentro d'inverno o d'estate. O sempre. Arrivati al seggio di paese, scelto per ostentare libertà di voto, siamo accolti da una specie di banda in costume tradizionale. Tanto perché non c'era nulla di preparato... C'è un palco dove si avvicendano oscuri ma fecondi oratori, nell'anticamera del seggio trovano posto alcune sorprendenti bancarelle di cibo. 
Le operazioni di voto sono regolari, lo certificano anche gli inviati internazionali, sebbene non possano sorvolare sul fatto che i candidati 'concorrenti' non siano proprio vigorosi. Nessuno sospetterebbe mai che sono fantocci, se non che uno di loro dichiara pubblicamente che tutta la sua famiglia voterà Nazarbaiev e forse anche lui... Ops... Potenza del carisma. Senza contare che le urne sono trasparenti, un plexiglas che nulla lascia all'immaginazione... Immancabile, al seggio dove vota Nazarbaiev, la vecchietta-icona, in veste tradizionale, madre, moglie, lavoratrice, (analfabeta) esempio del popolo, alla quale il dio sceso in terra offre con grazia la mano e il sorrido a beneficio dei flash. 

   
Come sia, il giorno delle elezioni ha altri elementi da festa di paese. Ci portano, noi e le nostre ombre locali, a pranzo in un terrificante ristorante con i notabili del luogo. Scorre alcol almeno a 90 gradi, non direi distillato di qualità, ma certo di grande effetto (non per forza positivo) su umore e comportamenti. Canti e balli interrompono il banchetto farcito di mille portate più o meno simili. Almeno per il mio palato. Momento clou, l'arrivo di una testa di agnello al forno al quale il capopopolo rosso e più rosso cava gli occhi con un cucchiaio e me ne offre uno. Insisto nel rifiutare, costi quel che costi in termini di galateo, diplomazia e quant'altro. 
Le giornate di concludono in albergo, dallo sconcertante ma assai appropriato nome di Hotel Esil. Un gaio monumento al socialismo reale, con corridoi larghi cinque metri e stanze minuscole. Moquette polverosa arabescata ovunque. Impiegati gentilissimi, ma totalmente inefficienti. Colazione di plastica. Abbandono Cartoonia-Gotham city con un comodo volo che parte alle tre di notte. Senza rancore e senza rimpianto. 
   

Grazie a Federica Iannetti per il contributo foto. Anche lei una volta inviata in Kazakhstan. Le mie erano su un telefono che non ho più. 

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